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libro i'rimo.
dine. E in questo s'accorda, come pur si è visto, con tutti i grandi maestri del dire latino. Nel libro nono (3,1) discorrendo delle figure delle parole ci addita una copiosissima sorgente di mutazioni nella lingua e ne adduce alcuni esempii. « Ver-borum vero figurae et mutatae sunt semper et, utcumque valuit consuetudo, mu-tantur. Itaque si antiquum sermonem nostro comparemus, paene jam quidquid loquimur figura est: ut hae re invidere non, ut veteres et Cicero praecipue, liane rem; et ineumbere illi non in illum et plenum vino non vini, et huie non hune adulari jam dicitur et mille alia; utinamque non pejora vincant.» Il che per noi vuol dire, che il senso metaforico ed astratto aveva a poco a poco vinto e cacciato da quei vocaboli il senso proprio e concreto, i quali dovettero accordarsi con altri casi, perciocché si erano mutati la qualità ed i termini del rapporto. Ed ebbe ragione Quintiliano di temere che le peggiori forme vincessero le migliori, giacché niente addita tanto vicina la decadenza d'una lingua, quanto l'abuso delle figure, e quel valersi de' traslati quasi fossero vocaboli propri, il quale toglie ogni chiarezza e precisione al discorso. Altrove (VIII, 3, 34) s' accontenta di avvertire generalmente che quelle parole, le quali allora erano vecchie, erano già state nuove, ed alcune se no usavano le quali erano recentissime. « Quae vetera nunc sunt, fuerunt ohm nova, et quaedam sunt in usu perquam recentia. »
So non che, ricercando attentamente nella storia l'origine e la natura di queste mutazioni, noi vediamo che, come per i suoni e per le forme, cosi anche per i vocaboli e per la sintassi esse procedono da questo semplicissimo principio: che l'eccezione a poco a poco diventa regola, il caso particolare un fatto universale, l'accidente sostanza. E sì nelle parole, sì nella sintassi possono, partendo da questo principio, accadere ancora in due modi: che un vocabolo od una frase usata raramente o peculiare di un qualche prosatore entri a poco a poco nel dominio comune; che voci e modi proprii soltanto della poesia passino nella prosa e levino così ogni differenza tra le due dizioni.
Ed a favorire queste novità, che già si facevan strada da sè pel naturale andamento della lingua, conferiva il bisogno, che gli scrittori avevano, di variare e di colorire più vivamente lo stile, di dir le cose in un modo insolito, che meglio allettasse i sensi o ferisse più fortemente la imaginazione dei lettori. Già, come altrove fu avvertito, le forme comuni eran venute a noja; toccata una volta la cima della perfezione, bisognava discendere e battere nuove vie cercando non tanto la proprietà, la spontaneità, 1' evidenza, doti già troppo vecchie e volgari, quanto la rarità, la sottigliezza e l'arguzia. E pnncipal maestro di questo stile fu Seneca; di cui Quintiliano sconsigliava la lettura ai giovani, acciocché non fossero presi alle lusinghe di que' dolci vizii (1). Ma per quanto il dotto uomo adoperasse, come fu già detto,
(1) Il giudizio di Quintiliano su Seneca è questo: Ex industria Senecam in omni genere elo-quentiae distuli propter vulgatam falso de me opinionein, qua damnare eum et invisum quoque habere sum creditus. Quod accidit mihi, dum corruptum et omnibus vitiis fractum dicendi genus revocare ad severiora judicia contendo, Tum aulem solus hic fere in manibus adolcscentium fuit. Qnem non equidem omnhio conabar excutere sed polioribus praeferri non sinebarn, qìios ille non destiterat in-cessere, cum diversi sibi conscius generis piacere se in dicendo posse, quibus illi placent, difìderet. Amabant autem euin magis quam imitabanlur, tantumque ab eo defluebaiiC, quantum ille ab antiquis descenderat. Foret enim optandum, pares aut saltem proxiinos ilio viro fieri. Sed ptaeebal propter sola viltà, et ad ea se quisque clirigebat effingenda, quae poterat; deinde cum se jaetarat eodem modo dicere, Senecam infamabat. Cujus et mullae alioqui et magnae virtutes fuerunt, ingcnium facile et copiosum, plurimum studn, multa rerum cognitio; in qua tamen allunando ab bis, quibus inquirenda quaedam mandabat, deceptus est. Tractavit etiam omnium fere studiorum materiam. Nam et ora-tiones ejus et poemata et epislolae et dialogi feriuilur. In philosophia parum diligcns, egregius tamen vitiorum inscctalor fuit. Multae ire eo claraeque senlentiae, mulla etiam morum grafia legenda; sed in eloquendo corrupta pleraque atque eo perniciosissima quod abundant dulcibus vitiis. Velles eum suo ingcnio dixisse, alieno judicio. Nam si aliqua eontempsisset, si partem non concupisset, si non omnia sua amasset, si rerum pondera minutissimis sententiis non fregisset: consensti potius crudilorum quam puerorum amore comprobaretur.... » (Ist. Or. X. 1. in line.)