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Storia della Letteratura Romana

Cesare Tamagni
Francesco Vallardi Milano, 1874, pagine 590

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a cura di Federico Adamoli

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   capitolo v. — quarta eta'.
   259
   di Tiberio, di Caligola e di Claudio, fosse caso o necessità, le Muse parvero ammutolite; e Roma udì nuovamente i suoi poeti soltanto sotto la capricciosa tirannide di Nerone. Ma ancora per tutto questo secolo essi non potevano contare che sulle proprie ricchezze o, come dice G-iovenale, sui favori dell'imperatore; altri protettori non avevano, e ì tempi di Lelio, di Mecenate, di Pollione erano già ben lontani. Quindi lo studio della poesia valse bene spesso ad occupare gli ozti e ad accontentare la vanità dei doviziosi, quando non fu un geniale sollievo di persone dedite alle più gravi cure dello stato, che si dilettavano di ricevere nelle publiclie sale di lettura i facili applausi degli amici e dei clienti.
   Nulladimeno e da costoro e dalla infinita turba dei poetuzzi, che ir) ogn. ora del giorno assordavano de' loro versi gli infeb< abitatori di Roma (1), e chiedevano invano (2) ai ricchi un pane , che questi preferivano di gettare in gola ai leoni ed alle concubine, Si stacca ancora un bello stuolo di veri poeti, i quali scrissero per vocazione non per ozio o per fame E se pur tra loro non tutti mantennero l'arte nella gravità del suo ufficio, se taluno consumò l'ingegno dietro faticose e vane imitazioni ed altri lo piegò a basse adulazioni od a frizzi scurrili, si pensi che la poesia aveva cominciato a decadere già negli ultimi anni dì Augusto, quando Ovidio diede il mal esempio di adoprarla a guastare i costumi ed a cantar fole piacevoli ma senza frutto. Fu egli davvero, come già si disse, il primo corruttore dei poeti latini: i quali da lui impararono a seguitare i capricciosi voli della fantasia, scuotendo il freno dell' arte o scambiandola coli' artifizio. E se ci offendono le oscenità troppo aperte .e frequenti, è d'uopo pensare che i costumi d'allora le comportavano assai più de' nostri, e che i poeti dovevano, per castigarli, mettere a nudo tutti i peggiori vìzii de' loro contemporanei.
   Del resto la fortuna dei varii generi di poesia seguì, com' era necessario, la condizione de' tempi e il gusto del publico.
   Ed innanzi tutto i poeti dramatici trovarono, ancor più che nel secolo precedente, il teatro occupato dai mimi, delizie dei principi e delle matrone, e la curiosità dei cittadini divisa tra le fazioni del circo e le pugne dei gladiatori. Quindi iì drama classico teneva con grandi stenti la scena, e L. Pomponio Secondo, uomo consolare de' tempi di Claudio, fu l'ultimo poeta che potesse veder rappresentate le sue tragedie. Tutti gli altri da Seneca a Curiazio Materno, autori di palliate o di preteste, scrivevano pei famigliari e pegli amici, che invitati li venivano ad applaudire nei privati o ne' publici ritrovi. Quindi tornavano sulla scena le antiche tragedie ; ma più spesso le comedie di Plauto e di Terenzio, ridotte, come ben si può credere, all'uso dei tempi: d'una sola togata, V Incendio di Afranio, si ha memoria che venisse rappresentata sotto l'impero (3). E le stesse tragedie non si recitavano intere; ma preferendo?' sempre più la musica e la danza alla declamazione, le sole cantate, delle quali prendeva gran diletto Nerone, quando sulle scene di Napoli e di Roma dava prova della sua maestria nel canto sotto le sembianze ora di nume ora d'eroe. Quindi l'azione dramatica scompariva affatto per far luogo alla canzone; e dalla
   (1) Fu quesìa una delle causo per coi Umbrizio lasciò Roma.
   .......mille pericula saevae
   Urbis et Augusto recilantes mense poelas.
   (Juv. Sat. III. 8.)
   (2) Vedi a pag. 241.
   (3) Che la scena ilramatica non fosse muta si raccoglie già dai precetti che Quintiliano dà ai suoi lettori sull'arte della declamazione, dalla dipintura piacevolissima che ci fa dei pregii opposti, ed ugualmente notevolissimi, di due famosi istrioni del suo tempo; ed anche dal confronto ehe M. Apre fa nel dialogo di Tacilo tra l'antica e la moderna maniera di recitare e di gestire. Si vede che all'arte si poneva gran cura, e che molti ancora vi riescivano eccellenti, con gradimento del publico e colla lode de'letterati. (Tacito Dial. capo 20. Quintiliano I, 111 II, 10, i3; VI, 2, 58 XI, 3, 178-81. Giovenale III, 93, ecc.)