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Storia della Letteratura Romana

Cesare Tamagni
Francesco Vallardi Milano, 1874, pagine 590

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a cura di Federico Adamoli

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   libro i'rimo.
   mini, sì bene i castighi. Uno spirito ugualmente commosso, ma meno retto ed onesto, avea detto molti anni prima che Roma sarebbe stata felice ed avrebbe avuto de' cittadini beati, se gli Dei più della libertà non amassero la vendetta (1). E se guardiamo ai tempi, tanto lo storico quanto il poeta avevano ragione, non potendo essi nella gravità stessa dei mali ond'erano afflitti veder altro che un atroce castigo delle loro colpe. Gli Dei, se c'erano, non adoperavano oramai la loro potenza che a punire ; nessuna benefica influenza spandevano più sulla terra, posseduta dalla temerità, devastata dalla violenza. Ma il vero è che nò Tacito, nè alcuno dei suoi contemporanei potevan conoscere tutte le cagioni dei mali che il mondo soffriva, o vedere il bene che nei segreti consigli della Provvidenza si veniva per esso maturando. Essi sentivano, che il miglioramento morale dell'uomo per mezzo dello stato era impossibile ; sentivano che, seguitando i suggerimenti e gli esempi dati già da taluni di cercare la perfezione nel ritiro e la tranquillità nella rinunzia ad ogni publico ufficio, si levavano a poco a poco alla patria i migliori cittadini, ed il morale miglioramento dell'uomo, oltre di essere apparente, noceva allo stato; ma occorreva un occhio d'aquila per leggere nel lontano avvenire in che modo l'uomo diventato migliore per virtù propria, non per effetto di leggi o di politici ordinamenti, potesse a poco a poco ricomporre lo stato sui fondamenti della verità e della giustizia. E potendolo leggere avrebbero forse provato un tale senso di dolore e di raccapriccio, da parer loro lievi e facilmente sopportabili i mali presenti; perocché avrebbero visto gli strazi d'Italia, la miseranda fine dell'impero, e venuti al sommo quegli uomini e quelle genti che più essi usavano odiare e vilipendere.
   Ma, comunque sia, questo avvenire essi non lo previdero; epperò se Tacito potè dare una soluzione adeguata al problema politico de' suoi tempi lodando la monarchia liberale di Nerva e di Trajano, il suo ingegno si smarrì in dolorose contraddizioni e disperò dell' esito, subito che volle tentare i più ardui problemi della morale e della religione. Qui fa scettico, e non lasciò scritta a' suoi contemporanei una sola parola di conforto. Abbandonata dagli Dei, i quali non prendevano piacere che della vendetta, malveduta dagli uomini dei quali colla sola sua presenza si faceva accusatrice, la virtù doveva dunque, secondo Tacito e i saggi della sua scuola, starsene contenta a se medesima, ma senza cessar mai di servire la patria, e per amore di essa il principe qualunque egli fosse. Se, cosi facendo, potesse giungere onorata e tranquilla al termine della vita, o non fosse per soccombere anzi tempo ai pericoli che l'invidia e la paura non cesserebbero di levarle contro, era ancora in mano della fortuna, la quale sola pareva reggere le sorti sì degli imperi come delle persone (2).
   Del resto queste massime, alle quali 1' autore torna spesse volte nel corso del suo racconto, per quanto possano parere e siano assai desolanti, valgono, per la cognizione di questo secolo ed anche pel comune ammaestramento, assai meglio che non i precetti di quella filosofia, la quale voleva parer sopra l'altre rigida ed austera ed era spesse volte solamente più ambiziosa. Voglio dire della setta stoica, alla quale Tacito (che a nessuna setta filosofica era addetto e della filosofia pensava come gli antichi, clic un Romano non dovesse possederne molta) non risparmiò le sue censure, biasimando come dannosa a lui ed inutile alla libertà sin l'uscita di Trasea
   veterum revolvo, tanto magis ludibria rerum ir.ortalium cunctis in negotiis obversanlur. « E non aveva torto : perocché Messalino proponendo al Senato che della vendicata morte di Germanico si rendessero grazie a Tiberio, a Livia, ad Agrippina, a Druso, dimenticò, tanto era oscuro ed abbietto, il nome di Claudio; il solo che la fortuna tenesse in petto per consegnargli un giorno I1 impero.
   (1) Vedi sopra a pag. 170. Nola 3.a
   (2) (Ann. IV, 20). « Dubitare cogor fato et sorte nascondi ut celerà, ita pnneipum iiiciinatio in hos, offensio in illos, an sit aliquod in nostris consiliis, liceatque inter abruptam contumaciain et deforme obsequiuni pergere iter ambitione ac periculis vacuum. »