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Storia della Letteratura Romana

Cesare Tamagni
Francesco Vallardi Milano, 1874, pagine 590

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a cura di Federico Adamoli

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   capitolo y. — quarta età'. 253
   elle lo regga, tener bilanciato, da chi poteva meglio cominciar la republica che da me'$ Ma la cosa è ora a termine, che al popol romano non può far meglio, nè la mia vecchiezza che lasciargli un buon successore, nè la tua giovinezza, che esser buon principe.... Vuoi tu proceder bene e non male ? guarda quello che sotto l'altro principe tu vorresti o no : è la regola brevissima e capacissima; perchè questo non è un regno, come nell'altre genti, dove una casa è sempre padrona e tutti gli altri son servi, ma tu comanderai ad uomini che non possono soffrire nè tutta servitù, nè tutta libertà » (l).
   Siccome poi contro la sentenza de' maggiori politici della Grecia e di Roma egli riteneva possibili od almeno durevoli le sule forme semplici di governo (2), anche per ciò doveva accettare sinceramente il principato e difenderlo, giacché nè col popolo nè co nobili Roma e l'impero si potevan più governare. Solamente l'esempio di Trajano lo induceva a sperare che la libertà si potesse pur con esso conciliare, quando ai cittadini non fosse per mancare la dignità nell'ossequio ed ai principi la temperanza nel comandare. Pertanto egli vitupera in quelli la viltà, che spiana ai principi la via di tutte le scelleratezze, e a questi nei rimorsi di Tiberio addita l'infelicità dei tiranni. « Che vi scriva, o come, o che non vi scriva in questo tempo, faccian gli Dei e le Dee di me più strazio, che io tuttodì non mi sento entro fare, se il so » (3). Con queste parole cominciava una lettera di Tiberio al Senato, scritta negli ultimi e peggiori anni del suo regno; tanto le sue stesse nequizie e crudeltà gli si 'eran voltate in orribile supplizio. E Tacito, riportandole, voleva avvertire i principi sicché non si lasciassero, come Tiberio, corromper tanto dall' assoluto dominio da perdere ogni senso di onestà e di decoro ; mentre poi non rifiniva d'inculcare ai Romani, che stava in loro di scemare i danni della tirannide e d'impedire che la niente stessa del principe ne andasse sconvolta, solchè osassero sacrificare i privati affetti al ben publico e servire la patria con viltù non disgiunta da moderazione. La qual virtù, quasi ignota all'età passate, era tanto più degna di stima, in quanto che nessuna speranza di premio la doveva sostenere. Bastar doveva a sè stessa, e accontentarsi della soddisfazione d'aver salvata la propria dignità e fatto il bene del paese. Ed era la sola virtù che i tempi comportavano ; ma Roma dovette ad essa principalmente se, a malgrado di tante cause di corruzione, potè tenere ancora per parecchi secoli l'impero del mondo, e so, anche in tempi tristissimi, ebbe nell'arti della pace e della guerra uomini non indegni dell'antica sua grandezza.
   Se non che una siffatta rassegnazione alla necessità dei tempi, per quanto nobile fosse e decorosa, non poteva non turbare profondamente l'animo dello storico, che vedeva pur sempre le peggiori scelleratezze premiate con onori e dovizie e le oneste opero rimeritate colle miserie o colla morte.
   Per questo egli fu più volte indotto a dubitare se le cose umane fossero governate da un fermo e provvido consiglio, o non piuttosto commesse al cieco arbitrio della fortuna (4), e degli Dei pensava che curassero non la salute degli uo-
   (1) Hist. I. 16.
   (2) È notissimo quel suo detto clic « cunclas nationes et urbes populus aut primores aut >in-guli regunt: delecìa ex iis et consociata reipnblicac forma laudari faeilius quam eveniie, vel si evenit haud diuturna esse potesl » (lib. IV, 55). Ben diversa sentenza espressero, nei secoli di Scipione e di Bruto, Polibio c Cicerone, quando pareva ancora che colla bilancia dei poteri la republica si potesse reggere e !a libertà conservare. A Tacito un siffatto equilibrio doveva parere, come allora era difatti, impossibile.
   (3) Ann. VI. 6. « Insigne visum est earum Cacsaris lilerarum initium: r.am his verbis exorsus est: « quid scribam vobis, patrts co:iscripti, ant quomodo scribam, aut quid om/iino non scribam hoc tempore, di Pie deacque pejtis perdemt, quam me perire colidie sentio, si scio. » Vedi anche Svetonio, Vita di Tiberio, 67.
   (k) Ann. VI, 22. « Scd mihi hacc ac feti a audicnti in incerto judicium est, faione rcs niortalium et necessitate immutabili, an forte volvantur. » Ed Ann. Ili, 18. « Mihi quanto plura recentium seu