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Storia della Letteratura Romana

Cesare Tamagni
Francesco Vallardi Milano, 1874, pagine 590

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a cura di Federico Adamoli

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   252 libro i'rimo.
   cavaliere di Tivoli (1), cittadino romano odiava i barbari, gioiva crudelmente delle loro discordie, e non più che in due o tre luoghi rese onore ai loro sentimenti d'indipendenza (2). Ned'era libero dalle superstizioni, e erodeva ai miracoli quando fossero divulgati ed attestati (3): quantunque perseguitasse come superstizioni nefandissime l'antica religione di Mosè (4) e la nuova di Cristo. E in questo rispetto lo stesse sue false opinioni ci giovano, perchè ci fanno intendere come fossero divulgati e profondi quegli errori, di cui Tacito non s'era potuto liberare. Ma egli è superiore a tutti, o veramente esprime i sensi d'una eletta parte della cittadinanza, allorché, biasimando del pari e l'abbietta adulazione e la temeraria quanto mutile disobbedienza, dimostra colle ragioni e cogli esempi che « anche sotto mali principi possono essere uomini grandi, e che l'ossequio e la modestia, quando sieno congiunte con industria e valore, arrivano a quel colmo, dove molti per via di preuipizii e di morir senza prò hanno cercato d'immortalarsi. » (5)
   E in questa così giusta estimazione dello stato morale e politico di Roma a que'tempi, la quale era frutto di un attento ed assiduo studio della sua storia, di una lunga e varia esperienza degli affari e di una profonda conoscenza del cuore umano, in questa dignitosa rassegnazione, che accetta con coraggio e, senza avvilirsi, sostiene per il decoro della umana natura e per il bene della patria quello ineluttabili necessità, che nel volgere de' secoli s'impongono cosi ai privati cittadini come alle nazioni, sta il gran pregio dei libri di Tacito e l'utilità continua de' suoi ammaestramenti, i quali non furono scritti pei soli Romani, ma per tutti quei popoli che abbiano grandi colpe da redimere od atroci sventure da sopportare. Perocché dalla analisi sempre giusta e sicura ch'ei ci fa dell'indole del principato romano, dei mutamenti che portò nelle istituzioni, nei pensamenti, nei costumi del popolo, come di quelli che per naturale vicenda pati via via esso stesso, noi impariamo questa gran verità: che sei principi sono dall'illimitato dominio trascinati quasi fatalmente a corrompere ed a corrompersi, la più grave colpa o la peggior disgrazia dei cittadini, dopo che abbiano perduta la libertà, è ancora quella di non saperli nò moderare nè difendere. E il pensiero dello scrittore, ciò ch'ei sentisse de' suoi concittadini come ciò che per loro desiderasse o temesse, è tutto in quelle profetiche parole di Galba a Pisone, quando il debole vecchio s'avvisava di fargli dono del regno e gli apprestava invece la morte. « Se questo immenso impero, gli diceva, si potesse, senza una mano
   (1) Ann. Lii). VI. 27. « Tot luctibus funesta civitatc pars maeroris fuit, quod Julia Drusi lìlia, quondam Nerouis uxor, denupsit in domum Rubellii Blandi, cujus avuin Tiburtem equitem romanum plerique meminerunt. »
   (2) Vedi le Iodi d'Arminio in fine del libro II degli Annali, e le sdegnose parole di Calcago contro l'ambizione e l'avarizia de' Romani nel capo 50 della Vita di Agricola.
   (5) Ann. IV, K0. « Ut conquirere fabulosa et fictis oblectare legentium animos, procul gravitate coepti operis crediderim; ita vulgatis traditisque demerc fidem non ausim. « E credette a chi gli attcstava il miracolo di Vespasiano, che in Alessandria restituì la vista ad un cieco e l'uso della mano ad un rattratto.
   (ff) Sugli Ebrei e Mosè sono da vedere particolarmente i primi capitoli del libro quinto delle istorie; de1 cristiani quello che ne scrive quando a Nerone piacque incolparli e punirli, in quel feroce modo che tutti sanno, dell'incendio di Roma, per stornare da sè il sospetto eh' ei 1' avesse comandato. E al ricordo di quegli infelici, che vestiti di pelli ferine morivano per ludibrio dilaniati da'cani od ardendo rischiaravano colle loro fiamme le notturne tenebre della città, lo storico non sa di per sè trovare una parola di pietà o di sdegno, ma s'accontenta di narrarci che si finì per averne compassione, come di gente che sì miseramente periva, non per alcun publico bene, ma per soddisfare alla crudeltà d'un sol uomo. Il motivo della pena, non la pena in sè pareva Ior degna di biasimo, e lo storico la teneva, per parte sua, giustissima.
   (B) Agric. 42. « Sciant, quibus moris est inlicita mirari, posse etiam sub malis prntcipibus magnos viros esse, obsequiumque ac modestiam, si industria ac vigor adsint, eo laudis esccndere, quo plerique per abrupta, sed in imllum reipublicae usuili ambitiosa morte inclaruerunt. »