capitolo vI. — quINTa età'. 251
possiamo dar giudizio perchè non ci sono pervenuto), il vero è che gli annali di Roma imperiale non furono scritti che nel secondo periodo di questa età: quando i fati ebbero concesso ai Romani la saggia mitezza di Trajano e l'alto ingegno di Tacito.
E giova dire fors'anco che i tempi non erano prima d'allora maturi per un'opera di tal fatta. Perocché soltanto la truce tirannide di Domiziano, ricomparsa inaspettata dopo i regni tranquilli di Vespasiano e di Tito, poteva aver mostrato agii uomini tutta la innata debolezza del governo imperiale, e quanto misera fosse la condizione di un popolo dato interamente in balia della fortuna. La monarchia era stata esperimentata in tutte le sue forme: liberale, quant'era possibile dopo vent'anni di guerra civile, con Augusto, rigida, cupa e sull'ultimo crudele con Tiberio, feroce o stolida con Caligola, con Claudio, con Nerone, atroce e micidiale nella guerra dei pretendenti, austera e tranquilla, quantunque non senza sangue, con Vespasiano, dolce con Tito e da capo pazza insieme e spietata coli' ultimo dei Flavii ; uscita a volte dalla reggia, dal castro pretorio o dai lontani alloggiamenti delle legioni sull'Eufrate, sul Reno, sul Danubio, e qualunque ella fosse, accettata sempre dal senato e dal popolo sempre acclamata ; tutti avevan visto ch'essa non era sostenuta da alcuna virtù intrinseca, e che, pur essendo necessaria ed inevitabile, non poteva per sè sola dare nè libertà ai cittadini nè sicurezza all'impero. E insieme colla monarchia i Romani avevan visto nel giro d'un secolo venir meno e guastarsi tutti gli ordini dello stato, e spandersi in ogni classe di persone il contagio della disonestà, del dubbio, della disperazione. Era adunque tempo che una mano sicura scrivesse questa lugubre storia di errori di delitti e di sventure, mentre un intervallo di riposo e di giustizia pareva concesso all' impero, e rinasceva la speranza che dei lunghi danni non fosse impossibile trovare il rimedio e la fine.
E l'ufficio dello storico era in questo momento altrettanto grave e difficile, quanto opportuno; perocché egli doveva numerare uno ad uno i mali del suo e de'passati tempi, penetrarne la natura, scrutarne e rivelarne, dove e quali che si fossero, le cagioni, e nella vasta compagine dell'impero, come nelle intime viscere della società, ricercare quanto vi fosse ancora di sano e di vitale da conservarsi, quanto di guasto e di putrido da essere risecato e distrutto. Quindi i politici ordinamenti e le istituzioni pu-bliche e private d ogni maniera, i costumi, le credenze, i sentimenti e le opinion tutte degli uomini dovevano essere prose in severo esame, acciocché di ogni cosa accaduta o che stesse per accadere si vedessero chiari i motivi e le probabili conseguenze, Oggimai lo storico non doveva più investigare sottilmente perchè e come il principato fosse sorto; ciò era noto a tutti, e, pochissimi eccettuati, tutti con maggiore o minore pazienza e dignità lo tolleravano. Esso era legittimo perchè era necessario; ma ben gli si poteva chieder conto dell'assoluto potere che il popolo aveva rimesso nelle sue mani, se l'avesse adoperato a beneficare o ad opprimere, a consolidare l'impero od a scuoterlo ne' suoi fondamenti
E solamente un uomo dell'ingegno e della consumata esperienza di Tacito potè scrivere questa storia, senza che nè l'ira o la pietà gli facesser velo alla mente, nè l'atrocità de' casi o la severità dei giudizii levassero fede alle sue testimonianze. Egli conobbe, come disopra s'è detto (1), tutte le difficoltà dell'opera, a cui si accingeva e trovò in sè i modi di vincerle. Perocché colla potenza dello stile, colla novità e profondità dei pensieri, coll'arte (nella quale era maestro) di descrivere i caratteri, di scoprire e significare i più riposti sensi dell'animo, rese attraente una materia per sè uniforme ed ingrata; e colla moderazione delle opinioni, coli'imparzialità e col decoro che sempre mantiene sia nel dolore sia nell'ira, potè, dicendo a tutti il vero, scansare il pericolo d'offendere od almeno affrontarlo sicuramente
Corto egli aveva corami coi suoi concittadini molti pregiudizii : aristocratico sprezzava la plebe, e stimava tanto la nobiltà del sangue da noverare fra i lutti del regno di Tiberio che una principessa imperiale avesse sposato il figlio di un oscuro
(1) Vedi pag. 246-249.