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libro primo.
tutto un onest'uomo, che non dovesse avere altro in petto ed altro sulle labbra, se non temevano di proferire nella scuola sifatti nomi'? Addestrando i discepoli a gustare negli scritti dei delatori le più fine arguzie del dire, senza darsi pensiero dell' uso che ne fosse fatto, li avviavano necessariamente ad imitarli, ed avvezzandoli, come facevano, a separare le forme dalla sostanza, ed a lodare la bellezza della frase anche quando l'intenzione di chi la proferiva fosse turpe o scellerata, uccidevano, senza volerlo. ogni principio di sana e virtuosa eloquenza. Da queste scuole potevano uscire ancora degli arguti parolaj o (lei cavillosi litigatori ; ma la generazione de'grandi oratori era finita, ed i nomi anche altrimenti onorati di Montano, di Cremuzio Cordo, di Demetrio, di Elvidio Prisco, ai quali in grazia di Quintiliano e di Tacito, che li ebbero maestri od amici, vorremmo aggiungere Giulio Secondo, Marco Apro, Messala, mentre attestano nobilmente la potenza dell'ingegno latino, provano pur anche che, quando i tempi son maturi, la forza delle cose vince i migliori propositi e le volontà più robuste.
Nulladimeno l'opera delle scuole latine in questo secolo non si può dire che sia stata inutile per le nostre ; giacché, se ne togliamo tutta la parte-propriamente retorica, che oggi è fuori di uso, il libro di Quintiliano, che ne compendia gli insegnamenti, sarà per molti secoli ancora un'ottima guida a chi voglia apprendere l'arte di parlare e di scriver bene e sensatamente. E siccome chi lo scrisse fu prima di tutto padre alfettuosissimo ed uomo di cuore, vi possono trovare ancora ottimi consigli ed ammaestramenti coloro che si consacrano all' educazione della gioventù. Nè quasi è mestieri avvertire, che esso è l'indispensabile amico e compagno di chi voglia essere maestro o critico di lingua e di letteratura.
In due memorabili capitoli del libro quarto degli Annali (1) Tacito ci dice quali fossero le condizioni e quale il dovere degli storici dell'età sua e con brevi, ma luminosi tratti ci descrive le principali differenze, che passavano tra essi e gli storie: dell'età republicana.
« Quelli, dice, narravano guerre grosse, città [sforzate, re presi e sconfitti; e dentro, discordie di consoli con tribuni, leggi a' terreni, a' frumenti, zuffe della plebe co' grandi, larghissimi campi. Il nostro invece è stretto, e scarso di lode; pace ferma o poco turbata; Roma attonita, e il principe di crescere imperio non curante. Ma non fia disutile esaminare eziandio cotali fatti a primo aspetto leggieri, da' quali nascono bene spesso grandissimi avvenimenti »
«Come adunque, quando la plebe, o quando i Padri potevano, conveniva sapere la natura del volgo, e come governarlo, e chi intendeva 1' andar del senato e dei grandi, si diceva saputo e scaltrito navigatore a que' venti; così ora che lo stato è rivolto e comandalo un solo, queste minuzie ci bisogna specolare e notare: perchè pochi sono i prudenti che discernano le cose utili e le onesie dalle contrarie ; gli altri le imparano dagli altrui avvenimenti. Queste arrecano, benché utili, poco piacere; perchè descrizioni di paesi, battaglie varie, morti di gran capitani, invogliano e tengono i leggitori; a noi toccano comandi atroci, accuse continue, ingannevoli amicizie, precipizii d'innocenti, e loro cagioni, riuscite spesso le medesime e tediose. Oltre a ciò gli scrittori antichi non sono lacerati, a niuno rilevando se tu vantaggi le schiere romane o le cartaginesi; ma, regnante Tiberio, furon puniti o svergognati molti, li cui posteri vivono. E quando fossero spenti, tale legge il peccato d'altri che l'ha, e lo crede a sè rinfacciato; anche la virtù e la gloria han de' nemici, quasi che troppo da vicino riprendano i loro contrarli. »
Ci era dunque in primo luogo la diversa qualità del soggetto, che li obbligava a variare lingua e stile; e per evitare, come dice Quintiliano, il tedio della narrazione, dovevano più che per lo passato prendere a prestito dai poeti voci e maniere. Nè la ubertà lattea di Tito Livio, riè la nudità leggiadra di Cesare s' addicevano allo storico degli imperatori; perocché il discorso lento, abbondevole, sereno non consuoni coli' animo turbato di chi ha da narrare sol delitti e dolori. Il discorso
(1) Liv. IV, cap. 52, 55.