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Storia della Letteratura Romana

Cesare Tamagni
Francesco Vallardi Milano, 1874, pagine 590

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a cura di Federico Adamoli

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   capitolo vI. — quINTa età'. 245
   chè colla loro dolcezza seducevano facilmente gli animi de' giovani, ed avevano già vinto in gran parte la ragione ed il gusto deglx uditori (1).
   E mentre egli, cosi facendo, avea seguitato gli ammaestramenti e l'esempio del suo maestro Domizio Afro, in questa controversia, che a poco a poco s'era estesa a tutta la letteratura, stette con lui il suo discepolo C. Plinio; l'autore dei panegirico di Trajano, il quale è il solo monumento dell'eloquenza di questo secolo, che la fortuna ci abbia conservato Tutti gli altri son periti : ma anch'esso, non saprei dire se per colpa dell'autore o del genere, ci mostra in maggior copia i difetti che non i pregi della scuola; e per onor d'un sì bello e caro nome vorremmo credere ch'egli fosse infiammato ed eloquente per davvero davanti ai giudici ed al senato, quando Trajano, che l'udiva, pregavalo di moderar la foga del dire, che per la sua gracilità pare-vagli soverchia (2).
   Il vero è che anche i più rigidi conservatori non andarono scevri dai comuni vizii del tempo, e furono alla lor volta laboriosi compositori di motti arguti, di piccanti antitesi, e di tutti gli altri artifìci o vezzi, che s'adoperavano per nascondere sotto il bagliore delle frasi (3) pensieri vani o perversi. L'abitudine della declamazione li conduceva poi quasi sempre al di là de' giusti confini, ed anche nell'espressione della verità non erano mai scevri d'esagerazione o di gonfiezza. Abituati a fìngere, quand'anche un vero e profondo affetto li commovesse, non cessavan per questo di declamare (4).
   Aggiungi che i maestri d'eloquenza, una volta esauriti i classici, dovevano pur pigliare i loro esempi dagli oratori moderni, e lodar le belle frasi e i tratti spiritosi di Domizio Afro, di Yibio Crispo e d' altri famosissimi delatori. Cosi inconsciamente distruggevano l'opera con tanto amore edificata dalle lor mani. perocché come mai potevano persuadere ai giovani, che l'oratore dovesse essere sopra-
   (1) « Corruptum et omnibus jvitiis fractum dicendi genus revocare ad sevcriora judicia contendo. « Inst. Or. Lib. X, cap. 1, 125.
   (2) È un grazioso documento della bontà di Trajano e della dolce vanità di Plinio, che pia-cemi di riferire. « Duodecim clepsydris quas spatiosissimas acceperain sunt additae quatuor. Adeo dia ipsa quae dura et adversa dieluro videbantur secunda dicenti fuerunt Gaesar quidem tantum mihi studium, taniain eliam curam (nimium est enim dicere soilicitudinein) praestitit, ut ibertum meum post me stantem saepius arìmoneret voci laterique consulerem, cum me vehemcniius putaret intendi quam gracilitas mea perpeti posset. « Epist. II, 11.
   (3) Giulio Africano, uno degli oratori che Quintiliano più loda, mandato dalla Gallia per complimentare Nerone della morte di sua madre, gli disse : « Roganl te, Caesar, Galline tuae, ut fe-licilatem tuam fortiter feras. » E il detto parve insigne a Quintiliano. E Seneca, nella lettera che scrisse per Nerone al Senato dopo l'uccisione della madre, diede saggio dell'uguale spirito dicendo: Salvimi me esse acihuc ncc credo nec guudeo. Pel ministro di Nerone l'arguzia era ben trovata, ma pel filosofo quanto onesta?
   (4) Che si potesse declamare e dire acutezze anche esprimendo un santo e profondissimo dolore, ci è provato da Quintiliano nel bellissimo proemio del libro VI, dove racconta e piange la morte de'suoi figli. Chi lo segua passo passo in quel lamento, e consideri appuntino i pensieri e le frasi, vede qua e là sotto la veste del padre il retore, che involontariamente si manifesta. Non indarno nelle scuole e nei libri si raccomandava ai giovani oratori la lettura di Menandro, e chi sa quante volte Quintiliano aveva dovuto recitar le parti di padre innanzi d'esser padre egli stesso. L'abitudine della scuola e dell'arte s'impone anche ai migliori, e solamente un retore poteva, in mezzo a parole di vero e straziante dolore, dire a suo figlio un'arguzia come quesla : « E se io acconsento, non ad amare ma a sopportare la luce del giorno, questa mia pazienza ti vendicherà per tulla la vita che mi rimane ; imperocché indarno noi accagioniamo la fortuna di tutti i nostri mali : nessuno è lungamente infelice se non per sua colpa. » Chi ne capisce nulla? 0 che il figlio doveva tenersi vendicato perchè il padre tollerava di prolungare la vita nel dolore ? Eppure di questi bisticci son piene le carte di Quintiliano, e vanno da lui, se non sempre lodate, enumerate sempre tra le figure retoriche, che vuol dir tra i mezzi di parere eloquenti.