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A queste ed all'altre miserie dei letterati ohe da! poeta, il quale era o fingeva essere del numero, ci sono con voce d'acerbo lamento descritte nella settima satira, s'aggiungeva la concorrenza dei Greci, che in tutte le case ed in tutti gli ufizi, dove fosse un pane da morsicare, chiudevano, come già si è visto, il passo ai Romani.
Graeculus esuriens in caelum, jusseris, ibit.
Di tanta perfezione essi non si tenevano capaci; e poi la moda era ita t.ant'oltre che anche le donne non usavano oramai vestire, parlare ed amoreggiare altrimenti che alla greca:
.......omnia graece,
Quum sit turpe magis nostris nescire latine. Hoc sermone pavent, hoc iram, gaudia, curas, Hoc cuncta effundunt animi secreta: quid ultra Concumbunt graece.
Alla fine o fosse l'indole stessa della letteratura (la quale come s'è detto a suo luogo non fu ma< popolare), o la costituzione tutta aristocratica e privilegiata della società romana, o la gelosa cura dei principi, che amavano tener divisa e segregata la gente colta dalla moltitudine, il fatto è che la separazione degli scrittori dal popolo fu in questa età anche maggiore che nella precedente ; e doveva per forza degli eventi che incalzavano crescere ognora col tempo. Per questo le lettere restavano con poca o quasi nessuna efficacia sulle opinioni e sui sentimenti delle moltitudini, le quali alla loro volta non potevano nè intendere nè compatire ai dolori ed alle sventure de' letterati. Già si preparavano i giorni, quando il popolo, diviso affatto dai dotti e dagli scrittori, sarebbesi con una propria fede ed un proprio linguaggio creata nelle sparse provincie dell'impero anche una propria letteratura.
Intanto gli scrittori di questo secolo mostrarono quanto l'ingegno e la volontà valessero ancora contro la malvagità degli uomini e la durezza de' tempi, e se non poterono essere ugualmente liberi come i loro gloriosi antecessori, non tutti però furono schiavi. Cedendo alla necessità, obbedirono quasi tutti anche ai più tristi tiranni; pochi spinsero la codardia fino a farsi strumenti di loro scelleratezze, ed a lodarle.
E tra questi il maggior numero fu di oratori. Perocché le loro condizioni fatte già misere e penose da Augusto, quando insieme con ogni altra cosa ebbe pacificato anche l'eloquenza (1), sotto i Cesari di questo secolo erano peggiorate al punto che, per dirla con Tacito, il nome di oratore restasse a mala pena a ricordo degli antichi. Essi chiamavansi causidici, avvocati, patroni e tutt'altro fuorché oratori (2) E non potendo sostenere onestamente la vita, perchè, al dire di Giovenale, erano assai male pagati, (3) e se volevano aver cause e clienti, dovevano sfoggiare più che la loro povertà non comportasse, moltissimi anteponevano facilmente il lucro alla buona fama, e venivano ad accrescere il numero già grande dei delatori. Qui trovavano le ricchezze, qui il credito e la potenza per vivere, in mezzo allo sgomento di tutti, rispettati e sicuri. A questo modo Eprio Marcello e Yibio Cri-spo (che già sopra abbiamo ricordati), quantunque nati di basso luogo, poveri ed uno anche mal fatto, furono per molti anu i più potenti cittadini di Roma, e, finché vollero, i primi avvocati ; ed intimi di Cesare girarono e governarono il mondo e furono da lui amati con una cotale riverenza. « Perchè Vespasiano, scrive V autore del Dialogo degli Oratori, venerando vecchio, ed a cui si può dire il vero, è ben capace che egli può accumulare e donare ag. altri cai suoi: ma da Marcello e Crispo gli è forza ricevere quello che ei non può dare » (4). Aveano guadagnato
(1) Vedi sopra a pag. 178, 179, 18ft.
(2) Dialogo degli Oratori, cap. 1.
(3) Giovenale, Sat. VII. 139-145.
(4) Cap. 8. Ed avverto, una volta per tutte, che mi son valso e mi valgo sempre della traduzione di Davanzati Solo me ne discosto, quando a me paja o non chiara o non fedele.