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Storia della Letteratura Romana

Cesare Tamagni
Francesco Vallardi Milano, 1874, pagine 590

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a cura di Federico Adamoli

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   capitolo vI. — quINTa età'. 241
   e d'altri fiori retorici e poetici. I pensieri sono bene spesso più gravi che per lo passato e i sentimenti più profondi e vivaci, ma per celarli, sì che non offendano, gli scrittori sono costretti a dir molto in poco e ad essere per amor di brevità oscuri, per studio di novità contorti e ricercati. Si scriveva a maniera, come a maniera bisognava parlare ed agire, chi non volesse dispiacere ai gusti già tanto depravati del publico, od incontrare come che fosse l'ira dei principi. I quali furon quasi tutti, o vollero almeno parere dotti ed intelligenti; onde ogni qualvolta li movesse sospetto o gelosia riuscivano anche più molesti e pericolosi agli uomini di lettere.
   Un altro guajo era la moltitudine degli scrittori, per cagion della quale i pochi buoni venivano travolti nella sorte dei mediocri e dei cattivi, e trovavano le condizioni della vita ogni dì più difficili e dolorose. I protettori mancavano, perchè ì ricchi ambivano per se la faina di letterati; non che volerla procacciare altrui; e l'abitudine del lusso li faceva vivere tutti in una povertà vanitosa:
   ......Vivimus ambiiiosa
   Paupertate omnes........
   Assai pochi potevano, come Lucano, giacersi contenti della fama negli orti marmorei. Stazio, dopo d'avere dilettati e commossi i Romani colla lettura della sua Tebaide, per cavarsi la fame doveva vendere l'Agave al mimo Paride. Perocché, dice ancora Giovenale, difficilmente emergono coloro alle virtù de' quali faccia ostacolo la povertà ; ed essa era durissima in Roma, dove un magro alloggio ed una più magra cena si pagavan a carissimo prezzo (1).
   (1) I ricchi, sempre al dire di Giovenale, davano alle concubine ciò che negavano agli amici, e nel ventre di leoni addomesticati gettavan più di quanto sarebbe bastalo per soccorrere all'inedia dei poeti.
   Kon habet infelix Numitor, quod ìnittat amico; Quintillae quod donet, habet; nec defuit illi, linde emeret inulta pascendum carne leonem Jam domitum: constat leviori liellua sumptu Niinirum, et capiunt plus intestina poetae. Contontus fama jaceat Lucanus in hortis Marrnoreis: at Serrano tenuique Saleio Gloria quantalibet quid erit, si gloria tantum est? Currilur ad vocem jttcundani et carmen amicae Thebaidos, laetam quum fecit Statius urliem Promisitque diem : tanta dulcedine captos Afticit ille animos, tantaque libidine vulgi Audiiur, sed quum fregit subsellia versu. Esuril, iniactam Paridi nisi vendil Agaven. Quod non dant proceres, dabil histrio.....
   E ricorrendo col pensiero ai tempi passali esclama:
   Quis tibi Maccenas, quis nunc erit aut Proculeius Aut Fabius? quis Cotta iterum, quis Lenlulus alter'? Tunc par ingcnio preuuin: tunc utile multis Pallere et vinuni toto nescire Decembri.
   Tutt' al più questi ricchi signori, che si vantano di far versi, concederanno al poeta fuso di una sala per le solite recitazioni; che egli deve però adornare a sue spese, e chiamarvi con gran sudore la gente, per uscirne alla line col capo rintronato sì d'applausi, ma col ventre vuoto Ipse facit versus atque uni cedit Homero Propter mille annos; tu si duicedine famae Succensus recites, maculosas commodat aedes: Ha;e louge ferrata donius servire juoelur, In qua sollicitas ìmitatur janua portas. Scit dare, libe.rtos extreina in parte sedentes Ordinis et magnas comitum disponere voces: Neino dabit rcgum, quanti subsellia Constant, Et quae conducto pendoni anabalhra tigillo, Quaeque reportandis posita est orchestra catbsdris (Sat. VII).
   Tamagni, Letteratura Romana 3t