Stai consultando: 'Storia della Letteratura Romana ', Cesare Tamagni

   

Pagina (254/608)       Pagina_Precedente Pagina_Successiva Indice Copertina      Pagina


Pagina (254/608)       Pagina_Precedente Pagina_Successiva Indice Copertina




Storia della Letteratura Romana

Cesare Tamagni
Francesco Vallardi Milano, 1874, pagine 590

Digitalizzazione OCR e Pubblicazione
a cura di Federico Adamoli

Aderisci al progetto!

   
[Progetto OCR]




[ Testo della pagina elaborato con OCR ]

   238
   librO i'rimo.
   peratori per la istruzione fu dimenticata la plebe; a favor della quale Nerva avea già ordinato, die i tìgli di parenti vecchi e poveri fossero in Italia educati a spese dello stato, ed Antonino il Pio fondò un'istituto di educazione per le fanciulle povere.
   Però la ragion di stato non sarebbe da sola bastata a mantenere un così vivo fervore di studj, se le lettere non avessero avuto altro pregio che di servire a lini politici. Esse valevano, è vero, bene spesso a quelli, che le professavano con lode, titoli e dovizie, e per chi nascesse di basso luogo erano il solo modo di acquistar onoratamente fama e fortuna; ma, al disopra di questi vantaggi, avevano ancora un merito ed una dignità propria, che allora, come oggi, consisteva nel. soddisfare a quelle due nobilissime tendenze dello spirito umano, che sono l'amor del bello e la curiosità di sapere. Le quali due tendenze tanto più dovevano crescere e divulgarsi, quanto più gli animi erano dalla condizione de' tempi costretti a ripiegarsi in sè medesimi, a riflettere ed a meditare, dappoiché le occasioni di operare o mancavano od erano piene di pericoli. Gli è ben vero che Plinio diceva essere proprio delle età di decadenza, che gli uomini concedano agli studj quello zelo e quelle cure che tolgono ai publici negozii, e pareva quasi dolersi che i suoi contemporanei avessero riposto ogni lor gioja e consolazione nella scienza, ma ciò non toglie che il fatto, per sè verissimo, eh' egli deplora, non sia stato il motivo principale, per cui una così varia e bella letteratura potè ancora sorgere e fiorire in mezzo a tanta corruzione di costumi. Ogni secolo ha le sue virtù come i suoi vizii: e nessun a/Tetto era più meritevole di surrogare il perduto amore della libertà, più atto a sostenere la cadente dignità dell'uomo e del cittadino, che l'amore della scienza.
   E i cultori di essa non avean che da guardarsi attorno per trovare materia d'alte ricerche e meditazioni. Avevano da risolvere, se il volessero e potessero, nuovissimi problemi di morale e di politica; ai quali prima d'ora s'era dai Romani pensato poco o punto, perchè a vero dire non erano mai apparsi tanto gravi ed urgenti. La costituzione del principato così mal sicura, che l'aver un governo buono o cattivo dipendesse più ch'altro dal caso, e quando il principe morisse senza erede naturale od adottivo, soprastasse grave pericolo di guerra civile; 1' umor bizzarro e la volubilità di un popolo che non sapeva essére nè tutto libero nè tutto schiavo, e colla stessa matta frenesia acclamava al nuovo imperatore come aveva poc'anzi maledetto all'antico; i quotidiani esempi di viziosi bene avventurati e d'onesti uomini infelici, e un medesimo tepore di vita far capo, secondo i cas e le persone, ad un esito diversissimo: questa cieca instabilità di ogni cosa e il vivere cosi in privato come in publico sempre contristato da gelosie, odii e paure, a tale che i cittadini non avessero nè sicurezza nella città, nè pace in casa, erano fatti ben degni di far dubitare i filosofi se la salute delle persone e la felicità degli imperi fossero governate da un'alta provvidenza, o commesse al volubile arbitrio della fortuna, se i popoli potessero aver speranza di riposare un giorno in un onesto e stabile governo, o dovessero pericolosamente ondeggiare nella vicenda perpetua del dispotismo e della licenza; se, infine, ad un uomo di cuore fosse lecito essere virtuoso senza pericolo e sicuro senza vergogna.
   E pur troppo a nessuno di questi quesiti la scienza potè dare una risposta soddisfacente. Giacché per lo stato i politici più prudenti si limitavano (come si è visto) a desiderare un imperatore, il quale sapesse, cosa rara e difficile, conciliare la libertà col principato, ed all'uomo i filosofi consigliavano il disprezzo delle cose mondane, la resistenza invitta al dolore ed alle altre ingiurie della fortuna, ed ultimo rimedio ai mali più gravi la morte. Escir di vita come si esce dal teatro, coli'animo forte e sereno: quest'era per gli Epicurei non meno che per gli Stoici il modo più spiccio di por termine a tutti gli incomodi e le miserie, elle ci impediscono il libero uso delle nostre facoltà. E il sentimento di poter morire era anzi il solo, che ancora desse forza agli onesti di resistere ai violenti, il solo che li confortasse dell'oppressione che pativano, perchè sapevano di possedere una libertà che da nessuna forza umana poteva loro esser tolta.
   Ma è facile vedere che quanto la dottrina del suicidio era per sè crudele ed