CAPITOLO VI. — QUINTA ETÀ'.
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qualche modo contrasto la quiete e la prosperità delle provincie, il valor degli eserciti, la virtù di non pochi illustri uomini e la bontà di alcuni imperatori, ma più che tutto forse il prestigio della grandezza romana, la sapienza delle leggi e la solidità degli ordirli amministrativi.
E per dire ora d'una sola di tali cagioni, gli è certo che lo stato di Roma migliorò passando (dopo il tristo intervallo della guerra dei pretendenti) dal regno di Nerone a quello di Vespasiano e di Tito, e dalla feroce signoria di Domiziano al mite e provvido governo di Nerva e di Trajano. S' può anzi dire che la saggezza e bontà degli Antonini diede a Roma ed all'impero l'ultimo e più lungo secolo di pace, di prosperità e di grandezza. Di qui è facile intendere, perchè i migliori ingegni di questa età non chiedessero dagli Dei e dalla fortuna di Roma altra grazia, che il dono d'un principe saggio e liberale.
Se non che, come già si disse, il male era inerente a quello stesso ordine d: cose, che si era fondato coll'iinpero, era il segno del certo decadimento dell'antica civiltà ed il precursore della nuova. Quando i patrioti romani si dolevano che il senato e la città s'empissero di gente straniera (1), che nelle magistrature ed a palazzo comandassero i liberti, forse aveano ragione, perchè con ciò vedevano cancellarsi a poco a poco que' due grandi caratteri della vecchia costituzione romana, ch'erano la separazione del cittadino dal forastiero, dell' uomo libero dallo schiavo. E si può concedere che dapprincipio, nei suoi effetti più appariscenti, questa confusione nuocesse eziandio al decoro ed al buon costume; quantunque nessuno vorrà negare ch' ella fosse una legittima conseguenza del continuo dilatarsi ed ingrossar dell'impero, ed un avviamento a quella uguaglianza tra gli uomini d'ogni classe e d'ogni gente sulla quale dovevan sorgere la nuova legge e la nuova religione.
Infrattaiito è facile vedeie che un sì profondo turbamento dei principii e degli ordini sociali e politici, per quanto fosse per essere fecondo di felici eventi nell'avvenire , non poteva aver luogo senza che ne soffrissero grandemente i costumi.
(1) Ciò che ai Romani, e massime ai letterati, più cuoceva, era la crescente invasione de'Greci, divenuti oramai padroni della città, tanta era la loro petulanza, tanta l'arte colla quale, acconciandosi a tutti i servizi], essi avevano saputo insinuarsi in ogni casa dove fosse un giovinetto da istruire, un potente da adulare, una vecchia dama da corteggiare, un'eredità da carpire, o al postutto un banchetto da rallegrare con molli arguti e scurrili piacevolezze. Giovenale nella 3a satira ce ne fece una dipintura, la quale può forse peccare d'esagerazione, ma certamenle riproduce i tratti caratteristici di quella gente tanto ingegnosa e versatile, quanto sapeva essere all'uopo abbietta e menzognera. E al poeta dava noja principalmente che eglino fossero insuperabili neh' arte di mentire ed essere creduti. Tacito anzi dice di loro, che credevano essi medesimi a ciò che fingevano. Dunque anche questo ultimo spediente avean essi rapito ai Romani, di vivere adulando.
Ma non erano questi ancora gli ospiti più pericolosi di Roma; che alla perfine sopra la turba dei buffoni e dei parasiti stavano uomini di squisita dottrina e di bella fama nelle lettere e nelle scienze. Una peggiore invasione venne dall'Oriente cogli Ebrei, coi Caldei, coi Galati che vi pollarono tutti i vizii e le superstizioni de'loro paesi. E fornirono un largo contingente alla turba degli indovini, degli astrologi, dei ciurmadori e fanatici d'ogni maniera. Aggiungiamo a questi gli Egiziani, uomini ingegnosi ed astuti, ina tracotanti, ostinati, osceni, e capiremo che, al veder confluire da ogni parte tanta e sì diversa moltitudine d'avventurieri, Tacito esclamasse essere Roma divenuta la sentina ed 1 teatro di tutte le atrocità e di tutte le vergogne.
E mo 'vi che da ogni parte menavano a Roma tanla gente, che le case della immensa città quasi non bastavano a contenerla, sono enumerati da Seneca in un tratto splendidissimo della lettera ad Elvidio (Vla) : « Aspice ageduni liane frequentiam, cui vix urbis innneusae teda sufficient. Maxima pars istius lurbae patria caret; ex mimicipiis et coloniis s.tis, ex loto denique orbe terrarum conflaxerunt, alios adduxit ambitio, alios necessitas offieii publici, alios imposita legalio, alios luxuria opportunum el opulentum vi is locum quaerens; alios libcralium sludiortnn cupiditas, alios specla-cula; quosdam traxil ainicitia, quosdain industria laxam ostendendae virtuti nacta maleriam; quidam venalem formam altulerunt, quidam venalein eloquentiam. Nullutn non hominum genus concurrit in urbem et virtutibus et vitiis magna pretia ponentem. «