Stai consultando: 'Storia della Letteratura Romana ', Cesare Tamagni

   

Pagina (244/608)       Pagina_Precedente Pagina_Successiva Indice Copertina      Pagina


Pagina (244/608)       Pagina_Precedente Pagina_Successiva Indice Copertina




Storia della Letteratura Romana

Cesare Tamagni
Francesco Vallardi Milano, 1874, pagine 590

Digitalizzazione OCR e Pubblicazione
a cura di Federico Adamoli

Aderisci al progetto!

   
[Progetto OCR]




[ Testo della pagina elaborato con OCR ]

   228
   LIBRO i'RIMO.
   per mostrare a tutti fin dove arrivasse la loro potenza, e finir d'abbattere e d'avvilire l'aristocrazia stata sin dall'origine nemica all' impero, si fa più che mai manifesta nelle persone che nominavano ai varii e gravissimi ufizii della corte. Seguendo l'uso romano di affidare agli schiavi ed ai liberti le varie parti dell'amministrazione domestica, e imitando l'esempio di Cesare, che avea posto degli schiavi a dirigere la zecca ed a ricevere le publiche entrate, ed al liberto Rufino suo favorito avea dato il comando di tre legioni in Alessandria, gli imperatori del primo secolo lino a Vitellio usarono di dar quegli ufizii ai liberti. Forse, cosi facendo, essi avevano in sul principio voluto conservare alla corte imperiale il carattere, che avea nell'origine, di casa privata; in progresso di tempo, e quando la podestà imperiale fu fermamente stabilita, quell'uso significava chiaramente la potenza del principe di elevar chi volesse ai più alti gradi, perocché davanti alla sua maestà tutti i sudditi dell'impero fossero uguali. Pertanto un liberto, sotto il regno di Claudio, era il ministro de'conti (a rationilms), e dirigeva tutta l'amministrazione delle finanze imperiali; un liberto il segretario di stato (ab epistolis); e da un liberto (a libellis) eran ricevute e giudicate tutte le petizioni e querele che venivano presentate all'imperatore.
   Ciò voleva dire che amministratori della miglior parte delle publiche rendite, reggitori delle provincie, dispensieri delle grazie e della giustizia sovrana e bene spe ìso arbitri della vita e delle fortune dei più illustri cittadini erano uomini il più delle volte vilissimi, i quali mediante turpi servigii od azioni scellerate aveano meritato l'amore e la fiducia del loro padrone. A loro affluivano le ricchezze per mille rivi (1), perocché oltre i lauti stipendi, oltre i guadagni, che assai facilmente pote-van fare maneggiando le rendite e trattando gli affari del fisco, vendevano a chi li volesse — e molti erano in que'tempi a volerli — i discorsi e fino ai segreti pensieri di Cesare. Siffatte notizie, com'è anche facile iinaginare, nella maggior parte erano false: ma ciò non impediva che fossero pagate a prezzo d'oro, e che con tal sorta di fumi si facesse per parecchi secoli — com'ebbe a dire Domiziano — mercato dell'imperatore (2).
   A tante dovizie ed a tanta potenza non potevano non aggiungersi i titoli e le onoranze; ed oltre a quelli, che più sopra ho nominati, la storia ricorda i nomi di Narciso, di Crispino, di Icelo, di Asiatico, di Ormo, e di Claudio Etrusco fatti cavalieri dai principi loro padroni; e Pallade, che dal senato ebbe prima la nobiltà equestre, poi le insegne della pretura (3). Nè a rompere gli ultimi ostacoli, che la legge ed i costumi opponevano alla confusione delle classi, mancarono i matnmonii di questi
   (1) Gli è certo clie ben poclii cittadini, anche de'più doviziosi, poterono in questi secoli rivaleggiare coi liberti del principe. Pallade, il favorito di Claudio, possedeva 300 milioni di sesterzii o all' incirca 75 milioni delle nostre lire, e non meno ricchi di lui dovettero essere i suoi compagni Narciso e Callisto. Così noi sappiamo da Giovenale che i loro palazzi superavano in magnificenza e splendore il Campidoglio, e Plinio il vecchio vide la sala da pranzo di Callisto ornata di ben 50 colonne d'onice. Le esequie di questi liberti si facevano con pompa orientale; e sulla tomba d'un di loro (di quel Pallade che poc' anzi ho nominato) presso la via di Tivoli era stata posta la seguente iscrizione, ad attestare non so dir più se la potenza del morto o la codardia de' viventi :
   « IIuio Senatus ob fidem pietatemque erga patrhnos ornamenta praetoria de-
   crevit et sestertium quinquagies cujus honore contentus fuit. »
   L' ultimo inciso dice più di una pagina di storia sulla villa di que' tempi. (Friedlander Opera citata. Voi. 1, pag. 85).
   (2) I ripetuti decreti degli imperatori contro questo traffico di false notizie mostrano come
   fosse quasi impossibile d'impedirlo. Alessandro Severo spinse il rigore sino a far morire soffocato sulla publiea piazza uno de'suoi amici Vetronio Turino, ordinando che durante il supplizio l'araldo
   gridasse: [Hunja per il fumo citi fumo ha venduto. (Friedl. 1. c., pag. 82).
   (5) Vedi sopra la prima nota, e ciò che di quel decreto del senato in onore del medesimo Pallade scrive Tacilo nel lib. XII, cap. 53, degli Annali.