CAPITOLO V.
QUARTA. ETÀ
(À al 117 d. C.)
§ 17. — Condizione politica dell' impero. — Costumi e scuole.
Questa età, la quale oltrepassa di pochi anni il primo secolo dell'era cristiana, abbraccia i regni di Tiberio (14-37), di Caligola (37-41), di Claudio (41-54), di Nerone (54-68), di Vespasiano (69-79), di Tito (79-81), di Domiziano (81-96), di Nerva (96-98) e di Traiano (98-117). E seguendo la storia politica si divide naturalmente in tre periodi, che pigliano nome: il primo dagl1 imperatori di casa Giulia (14-08), il secondo dai Flavii (69-90) ed il terzo da Nerva e Traiano (96-117).
Essa è la prima e mig'ior età della letteratura, che si dice imperiale, e la sola la quale ci mostri quanto la dottrina, l'ingegno e la indomita volontà de' Romani valessero ancora contro la miseria de'tempi e l'altre molteplici cagioni che precipitavano ogni cosa verso una inevitabile decadenza. E fu davvero una singolare sventura per questo gran popolo, che egli perdesse ogni ombra di libertà, e dovesse, con brevi intervalli di riposo, dibattersi tra le strette d'un feroce o stupido dispotismo proprio allora quando maggiore era la sua coltura, e l'amor dell'arte e del sapere più vivo in tutti gli ordini della cittadinanza. Perocché mai gli stud: d'ogni genere furono più curati d'adesso; mai le scuole più frequentate e fiorenti; e la lode di poeta, di storico, d'oratore pareva sì bella anche ai principi, che a più segni mostrarono di dolersi, che non la potessero come 1' altre cose recar tutta quanta nelle loro mani. Onde par quasi lecito di pensare che se il mite governo dei primi e più beg anni di Augusto fosse durato sotto i suoi successori, e se la sfortuna di Roma non avesse portato sul trono imperatori tanto per paura o per malvagità sospettosi e crudeli come furono Tiberio, Caligola, Claudio, Nerone e Domiziano, le lettere, salve le proprie differenze dei tempi, avrebbero potuto essere ugualmente floride e felici in questa come nell'età precedente. Se non che, per quanto grave e pericolosa ella fosse, non era la tirannide imperiale per se stessa il solo ostacolo che gli scrittoli romani dovessero in questo secolo paventare o combattere. Le conseguenze di essa, le quali si facevano ogni dì più manifeste nel continuo mutarsi degli animi e peggiorar de'costumi, erano sicuramente più dannose; perchè col cessare de'c atei vi principi e delle cattive dinastie non potevano cessar sì tosto anch'esse, e rimanendo levavano efficacia all'opera riparatrice dei pochi imperatori buoni e iberali. Chiaro essendo per la più volgare esperienza, che la virtù anche grandissima d pochi uomini non basta a salvare uno stato, quando gli ordini civili e politici sieno di lunga mano sconvolti, le classi dei cittadini confuse, e, rotti i vincoli sociali, non resti a tutela degli interessi e delle persone che l'ultima ragioue della forza, od il capriccio della fortuna.
Ora le condizioni politiche di Roma, quali glieie aveva fatte l'impero, erano appunto tali, che un uomo non vi poteva trovare sicurezza della vita, degli averi e neanche dell'onor suo, se non fosse tanto forte da incutere rispetto, o tanto umile che nessuno l'invidiasse o ne sospettasse. La legge non proteggeva più nessuno: dacché ogr cosa si faceva ad arbitrio dell'imperatore, al quale di buono o di mal animo, d'amore o per forza tutti obbedivano.
Tamagni. Lelleraluru Romana. 29