CAPITOLO IV. — TERZA ETÀ1.
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Seguendo la massima, che una parola di rilievo, la quale per via del suo posto prominente tira l'accento sopra di sè, debba essere seguita da un numero di parole di minor rilievo, che esprimono qualità secondarie o circostanze, le quali sono da capo seguite da una parola di rilievo, che chiude il senso, il periodo latino veniva ad avere naturalmente un principio, un mezzo ed un fine, e le parole formavano un tutto così compiuto ed armonico come i concetti che esprimevano. L'oratore latino non aveva che da seguitar questa norma, acciocché la sua prosa riescisso da sè ritmica e piena di melodia (1). Piacemi però soggiungere che una tale norma non era nè universale, nè molto antica. Non universale, perchè, come già si disse, limitavasi quasi unicamente al genere oratorio, e gli altri autori eran lasciati liberi di scrivere anche con maggiore semplicità e minor arte. Ne sieno prova il racconto di Cesare e le lettere di Cicerone. Non antica, perchè Cicerone ci avverte che da poco essi l'avevano appresa dai Greci (i quali da più che 400 anni la possedevano), e che i vecchi autori latini non sapevano (come anche da noi fu veduto) formare il periodo. Dicevano tre, due, od anche una sola parola per volta: quantunque, tanto
all'altra, ina che nulladimeno la loro relazione colia principale, da cui ugualmente dipendono, non è affatto la slessa. Difatti b (si postulabis librum) è premessa unica ed esclusiva di A (dabo tibi lubens), ed a (ubi redieris) per contrario è premessa di b: A; cioè delle due proposizioni che sono chiuse dentro della parentesi. Le quali, quantunque sieno distinte formalmente, fanno rispetto alla precedente una unità logica.
Abbiamo noi questa forma in italiano? Certo è che l'esempio latino si può tradurre tal quale: quando tu ritorni, se chiederai il libro, te lo darò volentieri. Ma, come scriveva or sono quindici anni R. Bonghi in una di quelle sue bellissime letteresulla nostra letteratura,una tale licenza noi l'abbiamo a certe coudizioni maggiori che nel latino. Ed una delle condizioni è certamente questa, che le proposizioni coordinale siano rette da congiunzioni diverse. Perocché se può già parer difficile di tradur tal quale il seguente passo di Cicerone: « Cur uolint, etiam sztaceant, satis dicunt:» è sicura-menle impossibile, senza confondere il senso, di tradurre tale e quale quest'altro: « Si quam opi-nionem jam vestris menlibus comprehenditis, si cam ratio convellet, si cratio labefactabit, si de-nique veritas extorquebit, ne re'iugnelis » In qupsto caso bisognerebbe per forza tenere la figura a, A (b): mettere cioè la prima proposizione accessoria davanti, e le altre tre, che ne fanno una, dopo la principale.
Questi esempi ho voluto addurre e queste considerazioni aggiungere per chiarire il testo che fors' è troppo conciso, e per mostrare anche una volta quanto studio ponessero gli scrittori di questo secolo alle forme dello stile. E così son riusciti a fare la bellissima li.igua latina: perchè ne hanno espe-riinentata la capacità e l'hanno determinata con norme chiare, ragionevoli, e pressoché inflessibi '. Noi invece che per non avere mai imitato questo buon esempio dei Latini, per non esserci mai fissali (sono ancora parole di R. Bonghi) sulla capacità della nostra lingua non sapp1' ino ancora sicuramente come la prosa si debba scrivere, e ad un bambino che ce ne richiedesse non oseremmo dare una regola certa ed assoluta per formare un periodo: noi che quindi nella ricchissima nostra letteratura confiamo a mala pena sulle dita i prosatori che si possano, non dico paragonare, ma solamente accostare per esattezza di lingua ed efficacia di stile ai classici latini; noi che per tutte queste cause desideriamo indarno una buona grammatica e sopratutto una buona e ragionevole sintassi, crediamo ora d'aver trovato il rimedio al male facendo appunto il contrario de'Latini, ed insegnando che uno ha da scrivere così come parla, e che la lingua sia tutta quanta nel dizionario. A coloro che avessero dei dubbi sulla ragionevolezza ed utilità di questo partito e volessero sincerarsene, suggerisco oggi accora, come faceva R. Bonghi quindici anni fa, di studiare la s.ihslica latina e di procurare che sia insegnata nelle scuole. « Essa, dice lìongln, se non farebbe forse scriltori odimi, migliorerebbe ì mediocri e scarterebbe i pessimi. » E sarebbe, aggiungo ), il primo avviamento ad avere un giorno una stilistica italiana, colla quale sola, e non col solo dizionario , formeremo ed avremo non dico la lingua, che c' è, ma uno stile ed una prosa italiana. Ciò vorrà dire che avremo finalmente capito che cosa sia una lingua, e quali le condii.oiu ed i modi per renderla uno stroniento solido ed efficace del nostro pensiero.
(1) Vedi ancora Bonghi nell'opera citata. Lettera XIV, pag. 152.