CAPITOLO IV. — TERZA ETÀ1.
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vetustum verbum sit, quod tamen consuetudo ferre possit; aut factum vel con-junciione vel novitate, in quo item est auribus consuetudinique parcendum ; aut translaium, quod maxime lamquam stellis quibusdam notat el illuminat orationem.»
L'altra maniera d'ornare il discorso consisteva nella continuazione delle parole, o nel periodo, il quale richiedeva due cose: prima la collocazione delle parole, poi il ritmo e la forma. Ullìcio della collocazione era di comporre e costruire le parole così che senza scabrosità o fessure il periodo fosse tutto ben connesso e levigato. Col ritmo, che Isocrate volle trasportare dalla poesia nella prosa, si mirava a dilettare l'orecchio, e ad impedire che l'orazione scorresse via uguale e monotona come fiumana all'infinito. Si voleva che, come la poesia ha i versi, cosi la prosa avesse alla flne di ogni senso certe pause dove l'oratore si fermasse, e nell'intervallo tra il cessar d'una proposizione ed il ripigliare dell'altra prendesse flato, non per istanchezza, ma ad arte e per produrre colla ben concertata sequenza delle clausole una piacevole armonia. E mentre l'uso de'versi nella prosa reputavasi vizioso, s'insegnava e si prescriveva, che il periodo fosse, appunto come il verso, ben articolato e sonoro. Si voleva, secondo il dettato di Aristotile, che la prosa fosse ritmica non metrica (l).
Ed a Cicerone, il quale fu il primo a recar dalla Grecia in Roma la dott.-ina del ritmo oratorio, la cosa pareva altrettanto facile quanto naturale. Facile perchè niente è più tenero, più flessibile e più duttile della lingua, chi la sappia maneggiare; naturale perchè la stessa necessità della respirazione ci obbliga a sospendere ogni poco, e quindi a dividere in parti più o men lunghe il discorso (2). Pertanto accadde della ritmica quello che di tante altre arti e discipline, che nata per soddisfare ad un bisogno, alla primitiva utilità aggiungesse ben presto la venustà ed il diletto.
Ma dalla maniera naturale di dividere e terminare le frasi ed i periodi a quella, che 1' arte dei retori insegnava, ci correva ancora un buon tratto. Perocché non tutti i ritmi erano ugualmente buoni e volendo accostare tan to quanto la prosa alla poesia, elevandola d'assai sopra il parlar comune, Cicerone consigliava, seguendo il precetto di Aristotile, agli oratori di evitare la troppa frequenza dei giamb e de' trochei, come quelli che per essere brevissimi avevano le arsi troppo vicine e spiccate, e già da sè naturalmente s'affollavano nel discorso. Dovevano invece prescegliere il dattilo, ch'era il piede eroico, e i due peoni: il primo e l'ultimo ; con quello ncominciando e con questo (o col eretico, che gli equivaleva) chiudendo la frase o il periodo. Il quale spezzavasi malamente e cadeva, se l'uscita fosse più breve del principio : acquistava invece bella rotondità, quando l'uscita fosse uguale, e meglio ancora se più lunga (3).
Giova però osservare che questo ed altri precetti di cui si componeva la ritmica oratoria, e che si trovano largamente esposti nei libri retorici di Cicerone, non imponevano agli oratori leggi così rigide e severe come la metrica ai poeti. Perocché
(1) Aiist. Rhet., Ili, 8: « Sii éyjiv ròv lóyov, pizpov §t [x-ò. » E Cicerone nell'Ora?.,SI, 172: « Aristoteles vcrsuin in oratione velat esse, numerimi jubet. «
(2) cicerone de Orat., Ili, 46, 181: « Hoc in omnibus partibus oralionis evenit, ut utilitatcm ac prope necessitatem suavitas quaedam et lepos cousequatur. Clausulas enim atque intcrpuncta ver-borum aniuiae .nterclusio atque angustiae spiritus attulerunt. Id inventum ita est suave, ut, si cui sit hifinnus sni cus datus, tainen euin perpetuare verba nnlimus. Id enim auribus noslris gratum est, quod hominum lateribus non tolerabile soluin, sed etiam facile esse posset. Longissima est igitur complexio verborum, quae votvi uno spiriti! polesl. »
• 5) De Orat,, III, 47, 182, e 183 , e 48, 185, 49, 187: « Numerus in continuationc nullus est: distmctio et aeqiiabuin et saepe varioruin intervalloruni percussio numeruin coufieit; queni in caden tibus gutiis, quod itcrvallis di&tiiiguuiitur, notare possumus, in amili precipitante non pnssumus. Quod si contiriuatio verboruin haec soluta mu'to est aptior alque jucundior, si est articulis membrisque distincta, quam :>i continuati ac producla, membra Illa modificata esse debebunt, quae si extreino
brev'ora sunt, .nfriugitur itle quasi verborum ambitus..... Quare aut paria esse debent posleriora
supei ioribus, extrema primis aut, quod eliam est mdius et jucundins, longiora. ¦>