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Storia della Letteratura Romana

Cesare Tamagni
Francesco Vallardi Milano, 1874, pagine 590

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a cura di Federico Adamoli

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   LIBRO i'RIMO.
   poesia, la prosa si doveva corrompere (1), e nonostante l'animosa resistenza dei puristi, i quali nella scuola e cogli scritti predicavano contro i pericoli dei nuovi insegnamenti ed esempii, già nel primo secolo e subito dopo Augusto noi la vediamo prendere, tutt'altro andamento.
   Però se in gran parte rinnovarono la lingua, sia foggiando nuovi vocaboli, come più di tutti fece Orazio (2), sia dando ai vocaboli vecchi con ardite collocazioni e giunture un nuovo significato, i poeti del regno d'Augusto, e veramente i più illustri, furono anche felici conservatori d'antiche forme, e quantunque assai meno di Lucrezio, se ne valsero per dare a tempo e luogo certo colore di nobile vetustà ai loro versi. E lo fu più di tutti Virgilio che, massime nell'Eneide, adoperò non raramente i genitivi in ai, l'infinitivo passivo in ier, il congiuntivo fuat, i futuri faxo,jusso; e, traducendoli dalla seconda alla terza declinazione, abbreviò la desinenza di fervere, fulgere, stridere (3).
   Ala ngli autori di questo secolo, e massime agli oratori, non bastava che la lingua e lo stile fossero veramente latini ed adatti per appunto alla materia: dovevano ancora essere ornati ed armoniosi. Questa era la dote che più distingueva gli oratori non solo dagli uomini volgari, i quali parlano confusamente e le parole misurano col fiato non coll'arte, ma eziandìo dai filosofi, che delle cose loro potevano disputare prudentissimamente anche senza gli artilizii della eloquenza. E come ogni discorso si compone di parole, le quali possono essere .trattate prima per sè, poi congiuntamente con altre, così anche gli ornamenti, onde il dire oratorio voleva parer più bello e a tutti gli altri soprastare, erano di due sorta, e si facevano o di parole sole, o di parole insieme connesse e continuate. Delle parole poi si distinguevano nuovamente tre specie: le proprie, che sono i naturali vocaboli delle cose, le traslate, e quelle che gli scrittori innovano e quasi fanno da sè. Per le parole proprie tutta l'arte dell'oratore consisteva nello sceglier bene, e a ciò gli era di grande ajuto la consuetudine di parlar bene. Colla quale egli otteneva di discorrere, come dicevasi. latinamente ; che era però ancora una lode piccolissima, mentre veniva denso e riputato 11011 pure oratore, ma neanche uomo, chi noi sapesse fare.
   Pertanto quando volesse colle parole semplici ornare il discorso, egli poteva opportunamente adoperare voci insolite od antiquate, purché non fossero per troppa vetustà rugginose, 0 coniar voci nuove, 0 valersi de'traslati; de'quali ahbiam visto poc'anzi che largo uso si fosse fatto per arricchire la lingua. Ita fit, dice Crasso (4), ut omnis singidorum veri) or um vìrtus atque laus tribus existai ex rebus, si aut
   (1) Un sol genere di prosa s'accostava, anche secondo i precetti de1 puristi, particolarmente alla poesia, e ne tollerava le. licenze; e questa era la storia. Onde Quintiliano nel libro X ne consigliava con alcune cautele la lettura e lo studio a chi volesse diventar oratore: « Ilistoria quoque alere ora-tionem qnodam uberi jucundoque suco potest: verum et ipsa sic est legenda, ut scianius, plerasque ejus virtutes oratori esse vitandas. Est enim proxima poetis et quodammodo carmen solution.... ideoque et verbis remotioribus et liherioribus jiguris narrandi taediuni evitat. « E di questa licenza largamente si valsero Sallustio e Livio, che insieme coi poeti offersero il maggior numero di voci e dizioni peregrine agli scrittori dell'età d'argento.
   (2) Gli ìsyóusvx sono numerosi in Orazio più che in altro poeta di questo secolo: e fossero trovate da lui, 0 da lui solamente richiamate in vita, del che per la perdita di tante scritture non possiamo dar sentenza, son pure bellissime voci: emirari, che vale ex intimo animo miravi; impermissa, inaudax, che dice un po' più di tim>dus; immotata, inemori ed altre, che si possono vedere nell'Indice di Orelli
   Quanto al modo di dar nuovo senso ai vocaboli con accorte giunture, fu già ricordato più sopra il passo dell'Arte poetica (a6-75).
   (3) II che in altri termini vuol dire che delle due desinenze (ère, ere) che questi ed altri verbi ebbero in antico, scelse, quella che gli tornava più comoda pel metro, bel resto su questi verbi son da vedere: Corssen, II, 293 (2a ediz.) e None, II, 32't.
   (*) De Orai, III, '(3,170.