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Storia della Letteratura Romana

Cesare Tamagni
Francesco Vallardi Milano, 1874, pagine 590

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a cura di Federico Adamoli

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   libro i'rimo.
   de' vocaboli che già possedevano, perchè nè erano facili a riceverne dal di fuori, nè sempre potevano coniarne o comporne di nuovi (1), vennero a formare una lingua piena di voci e maniere figurate, di perifrasi, di parole che possono dire infinite cose, e solo dal posto che occupano nella frase, dal modo come son prese da sè o congiuntamente con altre, assumono di volta in volta un preciso significato (2). Ciò, mentre dà a tutto il discorso latino un colore retorico spiccatissimo, ne rende assai difficile l'interpretazione a chi non abbia acume o dottrina bastevole per afferrare ogni volta l'intimo e son per dire momentaneo senso di un vocabolo e di un costrutto ; i quali quando siano, come spesso accade, tradotti alla lettera o non significali più nulla, o t.utt'altra cosa da quella ch'era passata per la mente dell'autore (3).
   Ma una volta ottenuta questa facoltà di forzare il senso alle parole, e di ridurle a dire di caso in caso ciò che ci talenti o ci abbisogni, s'apriva da sé la via a molte e disparate applicazioni, e ad esse doveva tener dietro quella differenza d' espressioni, di figure, di costrutti che si osserva, per modo d'esempio, da Sallustio a Cicerone, da Cesare a Tito Livio. I quali scrivono tutti latinamente, eppure ciascuno ha modi suoi proprii d'intendere le parole, d'usarle e di connetterle che non tornano negli altri. E se non paresse una iperbole, vorrei quasi dire che ciascuno si è dovuto fare coll'arte e colla propria ragione un linguaggio particolare, perchè aveva da manifestare pensieri o da dir cose non ancora da altri nominate Però di tutti G. Cesare è quello senza dubbio in cui la lingua ha fisionomia più semplice e più comune chè veramente egli scriveva per narrare non per dimostrare, e voleva essere capito da tutti i suoi concittadini, non meditato ed ammirato da una sola classe di persone. Scriveva senz'artifizio, e come per avventura avrebbe parlato, se coloro dai quali desiderava di essere letto fossero stati presenti ad ascoltarlo,
   Ma non bastava ancora allo scrittore eh' egli sapesse piegar le parole a rendere tutti suoi pensieri, chè doveva eziandìo restar fedele all'altro precetto, dal quale gli era comandato di variar lingua e stile secondo a genere o le parti varie de'suoi componimenti. E se i Uomani l'osservassero ci è mostrato, prima dalla differenza degl autori, poi in un autore medesimo dalla differenza delle opere e fin delle parti di esse.
   Ogni ramo di letteratura aveva dunque, si può dire un proprio eloquio : e come
   Orazio formò un costrutto analogo ai precedenti, ponendo tutta la forza del verbo in un aggettivo, quanao a descrivere la giornata di Azzio e la fuga di Cleopatra disse con sublime brevità nel l'ode XXXVII del libro 1:..... Sed minnit furorem Vxx una sospes navis ab hostibus.
   (1) La difficoltà di coniare nuovi vocaboli, od anche solo di comporne fu cimentata a varie riprese e non vinta mai. Quindi non entrarono mai nel dominio della lingua le lunghe e per lo più burlesche composizioni di Plauto e degli altri poeti dramatici del sesto e settimo secolo, e Catullo, il quale a^eva già l'orecchio più fine, ne tento qualcuna solo quand'ebbe da tradurre qualche lungo vocabolo greco. Ed anche in questi si valse, egli ed i poeti che gl tennero dietro, assai più frequentemente della perifrasi, a quel modo istesso che noi traduciamo dalle bianche braccia, dal lungo peplo, ecc. i soliti epiteti composti d'Omero. Perciò Quintiliano parlando nel pi imo libro (5, 70) della composizione dice: « Sed res tota magis graecos decet, nobis minus succedit: nec 1 fiei natura puto, sed alienis favemus, ideoque cum ¦/.nprc/.v^vx mirali sanius Hncurvicerviciiìrì vix a risu defendimus. « Nell'ottavo (3, 30, 31) scrive: «Fingere, ut primo libro dixi, graecis magis con-cessuin est, qui sonis etiam quibnsduin et affectibus non dubitaverunt nomina apiare, non alia liberiate quam qua illi primi homines rebus appellationes dederunt. Nostri autcìn in Mingendo aut in derivando panlum aliquid ausi vix in hoc satis recipiuntur. » E più in là ribadisce il chiodo lamentando anebe il morir continuo di molle belle voci trovate dagli antichi. « (VIII, 0, 31) Tainquam consummata sint omnia, nihil generare audemus ipsi, cum multa coudie ah autiquis fida mo-rianlur. »
   (2) Chi non sa gli infiniti sensi a cui si arrendono le sole voci res et ralio?
   (3) Molli e begli esempi se ne possono vedere nell'opera già ricordata di Nagelsbach.