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Storia della Letteratura Romana

Cesare Tamagni
Francesco Vallardi Milano, 1874, pagine 590

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a cura di Federico Adamoli

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   capitolo iv. — terza età1.
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   le cose chiare e precise, ed a presentarle rono delle proposizioni bene spesso anche proprio (1). E di siffatta guisa, costretti a
   come fatti piuttostochè come idee, usa-quando avevano nella lingua il vocabolo variare e ad estendere l'uso ed il valore
   essi medesimi colpevoli almeno in parte della povertà che lamentavano, per aver lasciato cadere in dimenticanza molti ed opportunissimi vocaboli? Rispetto alla prima domanda ci basti dire (dacché qui non possiamo fare nn Irattato di Stilistica latina, per la quale rimandiamo sempre i nostri lettori al classico libro di Niigelsbach), che se i grandi prosatori del presente secolo , ed anche i migliori delle età successive seppero, sia derivando per analogia nuovi vocaboli, sia tentando nuove giunture e frasi, dilatare ed accrescere le forze della lingua; altri scrittori, e quelli principalmente che più ne biasimavano le strettezze e l'impotenza, secondando troppo facilmente l'umor proprio e la moda che li traeva a tentare un nuovo genere d'eloquenza, composero vocaboli contrarli all'indole della lingua, e spezzando in minutissime proposizioni l'ampio giro e la tenace struttura del periodo latino, si privarono del mozzo più efficace che possedevano di riparare a quella da loro tanto deplorata indigenza.
   Quanto alla seconda giova avvertire che lo stesso linguaggio filosofico de' Greci, cominciato da Aristotile e dagli stoici portato al massimo grado di aridità, era più che tutto, come avverte Bernhardy (R. Lit 31 (161), un linguaggio di setta e di scuola, bene spesso pesante ed oscuro, nè sempre intelligibile ai profani Onde anziché biasimo meritano lode quei grandi scrittori che al latino non vollero far dono di una siffatla ricchezza; e noi abbiamo potuto vedere che sgraziato gergo il latino sia divenuto, quando se ne impadronirono e lo adoperarono per loro dispute ed affari i curiali ed i filosofi del medio evo Costretto ad accogliere voci foiastiere,a formare neologismi al di là delle proprie forze, a mutar modo di coordinare le frasi e di comporre i periodi, esso ha potuto per avventura esprimere più idee astratte che non ai bei tempi di Cicerone, di Tito Livio e di Quintiliano, ma si è imbarbarito.
   Della terza domanda non è qui luogo di tener discorso; però dai lamenti di Seneca nella lettera summentovata e da altri di Quintiliano, che si vedranno in appresso, si può ben credere che non sia mancato anche tra i Romani chi apponesse alla lingua le colpo della piopria ignoranza o della comune negligenza. Ma di colpe siffatte rimasero puri i grandi scritlori di questo secolo
   (1) In questo rispetto due cose meritano pariicolar menzione, e sono: l'uso delle proposizioni relatue per circoscrivere un nome od un aggettivo; e l'uso di porre, in luogo del sostantivo astratto dinotante un'azione, un participio passivo che qualifichi la persona o cosa che l'ha patita.
   U primo uso è frequentissimo e dà alla frase una vivacità ed una varietà, che alle volte manca in quelle lingue le quali amano in simili casi valersi di nomi Così, per addurre qualche esempio, in Cesare: i Tedeschi transrenani sono Germani, qui trans Rhenum incolunt; gli Elvezii che danno effetto ad un loro divisamento facilini, quod constituerant; ni Cicerone te conseguenze sono avenlus qui sequunlur, i sudditi in Tito Livio qui sub regno sunt, e raggiungere lo scopo si dirà variando in molti modi un'unica espressione: consegui o perficere quod volui, cosisequi quod expeto, quod, conor, id quo intendo.
   L'altro è meno frequente, ma forse vi spicca anche più l'indole positiva della lingua latina, e la sua attitiu ie a trovare degli efficacissimi surrogati ai nomi astratti che per avventura le mancassero. Così s'ella aveva da parlare di oltraggi al diritto di ospitalità, di uccisioni d'ambasciatori, di provocazioni scellerate ai popoli soggetti o confederati, di spogliazioni di tempii, convertendo il soggetto in predicato ed il sostantivo in participio, diceva per bocca di Cicerone: violati hospites, legati necali, pacati atque sodi nefario bello lacessiti, fana vexata. E l'uccisione dì Cesare dittatore dicevasi nel notissimo passo di Tacito : occisas diclator Cacsar.
   Livio andò anche più in là con quest'uso, e adoperò addirittura il neutro del pariicipio perfetto passivo, il quale facesse le veci d'un sostantivo astratto, e reggesse come soggetto la proposizione, senza perdere nulla della sua forza di verbo. Basti, a saggio de' moltissimi, questo esempio, che è nel lil). IV, 59 : Pronunciatimi repente, ne quis praeler armatos violaretur, reliquam omnem multi-ludinem exuit armis. Con quel participio lo scrittore latino traduce un infinito greco, ed al suo posio ne possiamo mettere tanto un infinito passato (l'essere stato subitamente intimato), quanto un sostantive ed un partic S (l'intimazione subitamente fatta), od anche un sostantivo ed un aggettivo (la repentina c subita intimazione)