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Storia della Letteratura Romana

Cesare Tamagni
Francesco Vallardi Milano, 1874, pagine 590

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a cura di Federico Adamoli

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   212 libro i'rimo.
   Cicerone stesso, che lodava Cesare di aver coli'analogia insegnato come si purghi la lingua e si saggi la bontà delle parole, cede pur qualche volta alla consuetudine, e quantunque protessi di aver lasciato l'uso al popolo e riserbata a sè la scienza (1), tuttavia per amor del ritmo, del quale era studiosissimo (2), decreta che nel dubbio tra varie forme ugualmente usitate s'abbia da scegliere la più armoniosa. « Impcratum est consuetudine, ut peccare suaritalis causa licereI » dice nell'Oratore (§ 159), e, sebbene scripserunt gli paresse una forma più razionale e più vicina al vero che non scripsere, pur nondimeno obbedì alla consuetudine, la quale, dice egli, all'orecchio volontieri condiscende (3).
   Quindi secondo la mente (li questi maestri del dire era perfettissima quella voce, che possedesse le tre qualità: d'essere usit.ata, conforme a ragione ed armoniosa.
   Da questi studii, i quali furono con crescente energia proseguiti dai grammatici e dai retori dell'impero, uscì quella teorica della pura latinità (4), che per lunga tradizione di secoli giunse Ano alle nostre scuole. Colla quale teorica, e col-l'opera degli scrittori che le restavano fedeli, si poterono per del tempo conservare al latino letterario i costrutti, le maniere, le voci e le forme del buon secolo, ma non impedire che dai contatti col volgare, fosse plebeo, rustico, o provinciale non prendesse i germi ogni anno più copiosi e fecondi della corruzione. Il volgare diè segno ben tosto di voler riprendere il perduto dominio, e ne'secoli successivi si vedranno I isorgere voci e forme, che la pura latinità ci aveva in questo secolo fatte dimenticare.
   Il terzo fatto si connette anche più strettamente degli altri colle vicende della lingua letteraria, la quale si può dire che da ora soltanto cominci ad avere una esistenza e quindi una storia tutta sua propria. Perocché, come più volte s'è visto, i confini tra essa ed il dialetto non erano dapprima ancora ben distinti e determinati. Onde adesso le varietà nascono e si formano dentro di essa, e parte sono della natura di quelle che già prima l'ebbero separata dagli idiomi volgari, parte, e le più cospicue, inerenti alla peculiare condizione delle lingue scritte.
   Le quali dovendo a\ere, od acquistare se ancora non l'hanno, l'attitudine a significare tutte le idee ed i sentimenti che per i progressi dell'arte, della se anza, della civiltà possono sorgere nella mente e nell'animo degli uomini in una detei minata età, dovendo, per ciò ebe sono esse medesime in gran parte opera di studio e di meditazione, riflettere il grado diverso di dottrina, d'ingegno, di diligenza di chi le adopera, vengono necessariamente ad essere più ricche delle lingue parlate, e si dividono quasi in tanti idiomi quante sono le materie dello scrivere, e le qualità degli scrittori. Unica di fronte alle particolari favelle del popolo, la lingua dei poeti, degli orator de' filosofi, degli scienziati si divide da capo in nuove e diverse loquele , l numero e la differenza delle quali è in ragion diretta della sua dovizia e variabilità, dei progressi del sa-
   e Vautorità, ne verrà anche meglio confermata la nosira opinione, che i Romani di questa età intendessero per retto uso principalmente fuso dei grandi scrittori sì antichi come moderni.
   (1) Orat., c. § 160. « tsum ioqnendi populo concessi, scientiam mihi reservavi.»
   (2) Id. ih. « Voluptati aurium morigerali debet oratio. »
   (5) Id. ib. t\rl, 187 a Nec vero reprehemlerim 'scripsere alii rem; 'scripserunt esse verius sentio, sed consuetudini auribus indulgenti libenter obsequar. »
   (li) Nelle grammatiche e nelle scuole romane lotinilas significava, come Fellenismo nelle scuole greche, la buona lingua, che si reggeva colle norme dell'analogia, e come tale contrapposta alla varia consuetudine, da cui in Italia e nell'impero eran nati i sermoni plebei, rustici e provinciali, nella Grecia i dialetti. Quindi latine Inqui suona in Cicerone parlare il buon latino, che più non bastando, come già si disse, la sola consuetudine, doveva apprendersi colla dottrina e coli' uso de'grandi scrittori. E della latinità, o in altri termin della zvuXoyiu nupv 'PcMHc'oc?, scrisse in questa età il greco Didimo, famigliare di G. Cesare insegnando, secondo che attesta Prisciano: « In ornili parte orationis et conslructionis analogiam graecorum secutos esse romanos » (Lersch: Sprachphil. d, alien. 1, pag. IMi).