capitolo iv. — terza età1.
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Catone, Plauto e Cecilio (1). Orazio dunque credeva che l'uso e gli scrittori si dovessero accordare, e siccome quando gli autor romani parlano d lingua non intendono come noi quella di tutti, ma la loro propria, così iix è avviso che per Orazio ¥ uso e gli scrittori fossero la stessa cosa. Nel che ci può confermare 1' autorità non piccola di Quintiliano, il quale, dedicando a questa controversia dell'uso e della ragione nella lingua tutto il sesto capitolo del libro primo, conchiude dicendo dell'uso queste memorabili parole: « Constiluendum in primis id ipsum quid sit, quod consuetudinem vocemus. Quae si ex eo, quod plures faciunt, nomen aeeipiat, periculosissimum dabit praeeeptum, non orationi modo sed vitae. Undc enim tantum boni, ut pluribus quae recta sunt plaeeant? Igitur ut velli et eomam in gra-dus frangere et in balneis perpotare, quamlibet ìiaee invaserint eivitatem, non erit eonsuetv,do, quia nihil horum caret reprehensione (at lavamur et tondemur et convivimus ex consuetudine), sic in loquendo, non si quid villose multis insederà, prò regula sermonis accipiendum erit. Nam ut transeam, quemadmodum vulgo imperiti loquantur; iota saepe theatra et omnem circi turbam exclamasse barbare scimus. Ergo consuetudinem sermonis vocabo conscnsum eruditorum, sicut vivendi conscnsum honorum. »
E in questa turba di barbari schiamazzatori, che già cent'anni prima dava noja a Cicerone , il consenso degli eruditi non si poteva ottenere se non appunto colla norma dell' analogia. La quale non essendo stata indotta da altro che da una lunga e diligente osservazione di fatti congeneri, non poteva per sè stessa contraddice all' uso, da cui prendeva origine, ma solo essergli guida, e contenerlo o correggerlo dove mostrasse di traviare Quindi Cesare che fu per avventura il più gagliardo sostenitore dell'analogia (ne' due libri dedicati a Cicerone come al principe degli oratori, ed all'autor primo della buona prosa latina) (2), e di essa si valse principalmente per dare regole certe e razionali all'ortografia, alle declinazioni ed alle con-jugaz'oni, comandò che come uno scoglio si evitasse ogni parola inaudita o disusata (3). E Varrone, dopo avere con diligentissima imparzialità esposte e discusse le ragioni delle due parti, terminò dicendo: che s'hanno da accogliere tutt'e due, perocché l'analogia sia ricavata anch'essa dalla consuetudine, la quale alla sua volta, quando sia retta, fa una cosa sola coli'analogia, e noi non ci possiamo ricusare di seguirla (4).
(1) I quali s'erano pur dovuti il più delle volle regolare colt'analogia (Vedi Leisen. Spracliphil. der alten., 1, 108, 109)
(2) Così Cicerone si fa dire da Attico nel Bruto (2B3) : « Qui (Caesar) etiam in maxirais occupai nibus cum ad te ipsum, inquit in me intuens, dcratione Laiinc loquendi accuratissime scripsenl pr
(3) Aulo Gellio Noct. Att. 1, 10. « Quod a Caesare in primo de analogia libro scriptum est, habe seniper in memoria atque in pectore, ut, tamquam scopulum, sic fugias inauditum atque insolem verbum .»
(fl) L. L. VIII, 126. « Consuetudo et analogia conjunctiores sunt inter se, quam hi credunt, quod est nata ex quodam consuetudine analogia; » e Vili, i30. « Quare, qui ad consuetudinem nos l'ocant, s ad rectam, sequanmr; in eo enim quoque esl analogia. » E a questi passi di Varrone rispondono a capello le seguenti parole di Quintiliano nel luogo già mentovato: « Non enim, cum piimum fingerentur honnnes, analogia demissa cacio formam loquendi dedil, sed inventa est, postquam lOQuebaniur, et riolatuin in sei mone, quo quidque modo caderci, Ilaque non ratione nititur, sed exemplo, nec lex est loquendi, sed observatio, ut ipsam analogiam nulla res alia fecerit quain consuetudo * E se avvertiremo che alla ragione ed alla consuetudine Quintiliano aggiunse la vetustà