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Storia della Letteratura Romana

Cesare Tamagni
Francesco Vallardi Milano, 1874, pagine 590

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a cura di Federico Adamoli

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   218 libro i'rimo.
   tratto raccolta nella mano di un solo. Celebrare le origìai della grandezza romana, e con essa consacrare il poter nuovo di Augusto doveva parer un soggetto degno dell'epica tromba, e tale da dar alle lettere romane un poema non minore dell'Iliade. E valga il vero, se le epopee liauno ad esser proprie di quelle età, elle si so-glion dire cardinali nella vita di un popolo, nessuna età più epica di quella d'Augusto, elle aveva veduto finir la republica e cominciare quasi fatalmente un nuovo ordine di cose. In queste età , che sono come lo fermate della storia (epoca non vuol dir altro), la mente nostra si volge di per sè stessa a riguardare il [lassato, e ne scorre con occhio attento tutti i casi e le vicende, perchè vuole trovarvi la ragion del presente, e di quello che essa debba temere o sperare nell'avvenire. Che interprete di questa curiosità sorga allora un gran poeta, il quale sappia intendere l'idea ch'è nella mente di tutti, e l'epopea è fatta.
   Ma il grande poeta capisce, ciò che facilmente sfugge alla corta vista de' mediocri che per quanto sì rassomiglino la storia e la poesia sono sempre due cose diversissime e adoperano, per ottenere ciascuna il proprio intento, maniere ben differenti. E capisce anche che mentre alle origini di una letteratura, nell'età, che si suole dire eroica di una nazione, la poesia epica precede la storia, e per un lungo corso d' anni le dà ancora nonna e colore, nel più bei fiore delle lettere e della civiltà la storia, che vuol dire la realtà, domina troppo la poesia, la quale vive di meraviglie e di portenti, perchè questa possa competere con essa o prenderne anche soltanto le veci. I dominj delle due arti sono divisi da tutta la distanza che separa i tempi favolosi e leggendari dai tempi storici, la nascita di un popolo e di una letteratura dalla sua matura età. L'altissimo poeta deve quindi intendere, che l'arte sua gli comanda di portarsi colla fantasia in que' secoli e tra quelle genti operatrici di miracoli, ch'egli deve evocarne l'imagine agli occhi de' suoi contemporanei, e cougiungere la leggenda colla storia, la finzione colla verità in modo, che questa si veda nel futuro lontano e nebuloso discendere e come sgorgare fatalmente da quella. L'epopea deve tornare pei virtù del poeta ciò che dessa è naturalmente: la prefazione, o, se meglio piace, la prima pagina della storia. A questi patti solamente ne' tempi di matura civiltà si può avere qualcosa che somigli ad un poema epico (1).
   Quantunque è però facile vedere che le differenze tra l'epopea naturale, spontanea, son per dir popolare, e questa, che nasce e si forma per opera di riflessione nella meni e di uno scrittore, sono ancor molte e gravi: ned è possibile che in tanta lontananza di opinioni, di sentimenti e di costumi egli consegua colla finzione V effetto medesimo, che i primi poeti ottengono dipingendo ciò che quasi han visto coi loro occhi. In tutta l'opera — per quanto grande sia l'ingegno e la dottrina del compositore ¦— si manifesta sempre alcun che d'artificiale e di studiato ; i caratteri vi sono più presto ideali e manierati che veri, tipi di virtù o di vizii comuni più che ritratti di persone vive ed operanti come portava la qualità de'tempi, l'indole e la situazione propria di ciascheduno.
   Ciò vide Virgilio, quando per assecondare il comune voto della nazione, e per sciogliere la promessa fatta al suo potente amico (2), s'accinse negli ultimi anni della sua vita a scrivere l'Eneide. Egli aveva davanti a se tutti i più diversi generi di poesia epica: Omero, i poeti ciclici, gli alessandrini, gli annali di Nevio e di Ennio, i racconti storici e mitologici de' suoi contemporanei. E potendo scegliere capi che, se non gli veniva fatto eli ricreare per forza d'imaginazione e di studio l'antica epopea, nnestando in essa i sentimenti e le idee del suo tempo, e non conseguiva di mescolare la mitologia colla storia in tal maniera che paressero una cosa sola, avrebbe aggiunto un racconto epico di più ai molti che già Roma aveva, non fatto un poema nazionale. Non avrebbe sopratutto appagato i desiderii dei
   (1) Vedi gli Studi già mentovali di Patin sulla poesia latina, I. voi pag. 197 e passim.
   (2) La promessa è di cantar le gesta di Cesare, ma si capisce come ne uscisse l'Eneide (Georg lib. IIr. Hfì).