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libro i'rimo.
dovette tenere il campo contro due qualità di avversarli, che i veri amici delle lettere ebbero sempre da combattere ; vogliamo dire i pedanti adoratori dell' antichità, ed i novatori scapigliati che ogni buon esempio antico hanno in dispregio, e rigettano sdegnosi ogni freno di regole, fin di quelle che manifestamente impone la stessa natura. Posto fra questi estremi, Orazio dovette dire agli uni: che la vecchiezza per se sola non basta a far belli i poemi, e che se i Greci avessero seguito la massima di venerare e di imitare sempre e soltanto i poemi antichi, non avrebbero prodotto quelle maraviglie, che i posteri ammirarono, non già perchè fossero più vecchie di loro, ma perchè rappresentavano il sommo della bellezza artistica ; agli altri dovette diro per converso : che da canto alla legge di progresso, la quale permette all'arte di mutarsi gradatamente secondando i bisogni de' tempi, de'costumi, della civiltà, ci è un'altra legge la quale insegna non potersi la perfezione dell'arte trovare all' infuori delle norme costanti ed universali della ragione. Al disopra cosi delle superstiziose pedanterie degli uni, come dei capricci e delle bizzarrie degli altri, stando la vigile guardia del buon senso, il quale ti dice esserci nell'arte, come in tutte le cose, un giusto mezzo al di qua ed al di là del quale nescit consistere rectum. Nel poeta e nel critico noi ravvisiamo qui lo stesso ingegno misurato e prudente del filosofo, del politico e del moralista. E non ci è chi leggendo ancor oggi quelle lettere non s' avveda come egli abbia sciolto i più riposti problemi dell' arte, e risposto a tutte le interrogazioni, che un discepolo possa fare al suo maestro, con que' precetti brevi e luminosi, che d'età in età son passati quasi assiomi per le scuole.
Ma esse fanno anche di più, perchè oltre di mostrarci quanto ad Orazio fossero famigliari le dottrine estetiche dì Platone e di Aristotile ed i maggiori esemplari della poesia greca e latina, ci introducono, per cosi dire nella stessa officina del poeta a vedere che stromenti e che modi egli e que' pochi che gli somigliavano tenessero lavorando. Qui noi possiamo vederlo non pago del nudo ingegno, quando sia diviso dalla dottrina e dall' arte (1), sottoporre 1 suoi lavori a quella stessa critica severa che adoperava cogli altri, a quella fatica della lima, la mancanza della quale avea impedito che il Lazio fosse cosi potente anche nelle lettere com' era nell' armi (2). Qui lo vediamo rodersi 1' ugno e grattarsi più volte il capo per trovare i vocaboli giustamente adeguati ai pensieri, e quelle accorte giunture che alle voci più comuni danno nuova aria di nobiltà. Qui lo vediamo coli'occhio sempre intento ai modelli greci tornire ad uno ad uno i su^ versi, acciocché ottengano quella grazia e quell' armonia, che non teme l'acume del giudice più seA'ero; e ripetuti dieci volte piacciano ancor sempre.
Mentre con queste poesie si dava opera a migliorare il gusto ed i costumi, ed a diffondere nel popolo l'amore di tutte quelle arti che fanno onorata e piacevole la vita si dei privati, sì delle nazioni, altri con maggiore audacia ritentava l'epopea, sia mitologica, sia storica ; ed un lungo seguito di poemi venne a far prova, se non della fortuna e dell'ingegno , almeno del buon volere e della operosità dei poeti epici di questo secolo. Della più parte de'quali noi ignoreremmo fin anche i nomi, se non ci fossero stati ricordati da Tibullo, da Properzio, da Ovidio ed anche da Orazio, che un po' per amicizia, un po' per cortesia, un po' anche per isclierno li onorano del titolo di grandi poeti (3).
(1) Si sa coni' egli rispondesse a chi gli chiedeva se i poemi divenissero belli e lodevoli per natura o per arte:
......ego nec studium sino divite vena
Nec rude quid possit video ingeniuin....
(2) Art. poet. 280.
Nec virtute foret clarisve potentius armis Quam lingua Latiuin, si non offenderet unum Quemquc poetarum limae labor et mora.....
(3) La più lunga lista ci è data da Ovidio nella lettera sedicesima del libro quarto dal Ponto.