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libro i'rimo.
voci e di maniere, lusso d'imagini ed una cotale tendenza al patetico, che anche nei sommi non va sempre scevra di gonfiezza e d' affettazione, una bella parte d'originalità spetta a loro pur sempre per il modo con cui dell'arte e della dottrina appresa si valsero a significare i proprii concetti, a vestir di forme greche sensi e pensieri altamente romani. Glie da questa fusione delle due arti e quasi delle due lingue in una sola è per appunto scaturita l'eccellenza della poesia latina in questo secolo.
Aggiungere, come già si è detto, forza e venustà alla lingua latina colla greca, mescere e contemperare bellamente le credenze, i riti e le tradizioni dei due popoli, quasi dopo un lungo esiglio si fossero ritrovati a formare di nuovo un solo popolo sul suolo d'una patria comune, epperò rendere con voci e metri latini tutta l'armonia, la copia, lo splendore, la freschezza della poesia greca; tale fu il compito dei poeti che sedevano alla parasitica mensa (1) di Augusto, e noi possiamo oggi ancora giudicare se l'abbiano gloriosamente adempiuto. Che se un tal quale senso di mesta o fastidiosa rassegnazione spira qua là dai loro scritti, se le lodi del principe e gli inni alla pace ti fanno scorgere alcuna volta la mano che li comandava o li pagava, se, in una parola, questa bella poesia ti pare alcun poco manierata ed uniforme, e certamente meno schietta che non fossero i ruvidi canni de' poeti republicani, noi non vorremo attribuire agli scrittori una colpa che è de' tempi, e saremo sempre più disposti a lodarli del molto bene che coll'opere loro hanno fatto a Roma, alle lettere ed all' umanità, che non a biasimarli di pochi ed inevitabili difetti.
Lasciando ora queste generali considerazioni per riprendere il filo del nostro racconto, e venendo ad esaminare partitamente ciascun genere di poesia, noi vediamo continuare la decadenza dell'arte dramatica, e fare progressi rapidissimi la satira, la poesia didattica ed epica, la lirica e l'elegia. Le cagioni del decadere del teatro furon già dette, uè giova ripeterle ; e se la precedente generazione ascoltava ancora volonterosa ed applaudiva i drami antichi, quando fossero recitati da Roscio o da Esopo, i Romani di questa età, plebei e cavalieri tutt'insieme, preferivano di gran lunga altri spettacoli: come giochi di Aere, pugilati, lunghe e pompose processioni di navi, carri e cavalli, simulacri di battaglie, trionfi ; in breve qualsiasi cosa che allettasse la vista, giacché dagli orecchi ogni voluttà era trasmigrata ad, incerios oeulos ei gaudio, vana. (2)
Onde Orazio aveva ragion di scrivere, che se Democrito fosse allora entrato in un teatro romano avrebbe riso di gran cuore, e assai più che dello spettacolo sa-rebnesi dilettato guardando al popolo spettatore. Il quale strepitando e mugghiando
......come /a mar per tempesta
non ti permetteva di udir la voce degli istrioni, e quante volte un nuovo personaggio entrasse in iscena, senza lasciargli aprir bocca, applaudiva fragorosamente ai bei colori ond'era vestito.
Si foret in terris, riderei Democritus, seu Diversum confusa genus panthera camelo Sive elephas albus vulgi converteret ora; Spedar et populum ludis attentius ipsis Ut sibi prccbentem mimo spectacula plura, Scriptores autem narrare putarct asello Fabellam surdo. Nam quae pervincere voces
(1) Cosi veramente denominò Augusto la mensa di Mecenate, quando si provò di distoglierne Orazio, per averlo con sè a palazzo. « Veniet, ergo ab ista parasitica mensa ad hanc regiam. » Vedi la vita di Orazio in Svetonio,
(!) Vedi sopra a pagina fi.