capitolo iv. — terza età'. 179
si poteva avere nè mantenere luogo rilevato, nè da vedere nella città (1). Siccome poi la vera eloquenza richiedeva molta erudizione, molta arte ed una scienza quasi universale, così la difficoltà stessa le cresceva dignità ed aggiungeva nuovi stimoli agli ingegni che fossero desiderosi di acquistarla. Perocché il premio è tanto più ambito, quanto più ardua è la meta e sottile la schiera de' possibili vincitori.
Tolto agli oratori di parlare al popolo, che è il genere d' eloquenza nel quale possono dar più libero corso alla piena degli affetti, spiegare la più larga dovizia di argomenti, valersi di ogni mezzo elio 1' arte insegna per commuovere e convincere gli animi degli uditori, tolta la speranza degli onori e l'orgoglio di sentirsi, mentre parlano, arbitri delle sorti di quella moltitudine che pende dalle loro labbra, essi dovevano a poco a poco o ritirarsi dal foro e cercare in aìtri luoghi e per altre vie fama ed applausi, oppure farsi meri patroni ed avvocati, e parlare a quel modo e con quella misura che meglio piacesse al nuovo uditorio ed ai nuovi giudici. Con ciò da una parte si restringeva d'assai l'ambito delle cognizioni necessarie all'oratore: onde la negligenza e la temerità di parecchi potè in breve volger d' anni venire a tale, che ignorassero le leggi ed i decreti del Senato, si ridessero del diritto civile, e paventando la filosofia e i precetti de' giurisprudenti, riducessero tutta 1' arte loro a pochissimi concetti ed a brevi sentenze; dall'altra la facile concordia elei pareri nel Senato, e ne' ti ibunali la fretta dei giudici avevano rese inutili ed impossibili le ampie e lunghe dice rie. A nessuno metteva più conto, e neanche gli si concedeva di consumare l'int era giornata parlando.
Pi qui la necessità di un dire più rapido e vibrato, che comprendendo in pochi e chiari sensi l'argomento, persuadesse prestamente i giudici colla lucidità delle ragioni, o li tr ascinasse coli' impeto e col calore degli affetti. Del quale genere di eloquenza diede prima l'esempio Cassio Severo, spirito acre, fervido e mordace, che pagò i suoi ardimenti contro gli amici del principe morendo dopo 20 anni di esiglio, vecchio e miserando sulla rupe di Serifo. Egli fu maestro e duce d'una nuova scuola d'oratori, ma forse il solo che per la varietà della dottrina e per una certa forza, se non sempre per iì colorito del dire, potesse dai buoni giudici essere ancora paragonato cogli antichi. Quantunque Tacito abbia scritto di lui : che primo disprezzò 1' ordine nelle cose, la modestia ed il pudore nelle parole, che adoperò le sue armi scomposte, e per troppa voglia di ferire inciampava, nè combatteva ma rissava. Compagno d'animo, d'eloquenza, e di sventure gli fu T. Labieno.
Fra i superstiti della vecchia scuola sono ancora notevoli M. Messala ed Asinio Pollione, il quale come durante la republica s' era studiato di contrapporre al nitore ciceroniano la severità della vetusta eloquenza, così ora avea cercato un compenso al silenzio della ringhiera negli applausi delle publiche recitazioni (2). Onde con lui le declamazioni che prima erano state meri esercizii scolastici o preparazioni, che anche i più provetti non sdegnavano, alle vere e vive dispute del Senato, de' tribunali e della piazza, diventavano una propria arte e l'occupazione di molti non ispregevoli ingegni. E il peggio fu che in questi pomposi vaniloquii si veniva principalmente educando la gioventù, che fin lì aveva appreso la facoltà del dire ascoltando assidua i discorsi dei veri e valentissimi oratori. Quelle scuole di impudenza, che il censore Licinio Crasso aveva fatto chiudere, si riaprivano, e al posto della grande e sincera eloquenza succedeva la retorica. Arte vana che a poco a poco consumò le migliori forze dell' ingegno romano in controversie senza senso e senza scopo, facendo che i giovani imparassero a declamare innocentemente contro i tiranni, mentre la patria si avviliva ogni dì più nel servaggio, a sciogliere tesi assurde o ridicole, a persuadere chi non poteva ascoltarli, perchè quasi sempre quelle loro vuote esordi) Tacito. I/iaìogo degli oratori, Gap. 56.
(2) Publiche non voleva però dire ancora che vi fosse ammessa ogni qualità di persone, come sì fece più tardi. Di lui Seneca scrive (Controv. IV. praef. % pag. 578) : « Pollio Asinius nunquam admissa multitudine declamavit, nec illi ambitio in siudiis defuit; primus eniia omnium Bomanorum advocalis hominibus scripta sua recilavit ».