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Storia della Letteratura Romana

Cesare Tamagni
Francesco Vallardi Milano, 1874, pagine 590

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a cura di Federico Adamoli

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   libro i'rimo.
   lenza di uomini d'alti spiriti i quali, come Orazio, avevano combattuto nelle file repu-blicane, potè ancora permettere che in queste biblioteche si leggessero i carmi di Catullo e d'altri poeti, quantunque fossero pieni d'ingiurie contro la famiglia de'Cesari. La prudenza gli comandava di tollerare questi ultimi bagliori di libertà (1)
   Cosi meravigliosamente ajutato dalla fortuna de'tempi, e dalla propria accortezza, circondato d'amici abili e sicuri, celebrato a gara da'suoi poeti, che abusando d'una metafora assai comune agli antichi già lo pareggiavano agli Dei pei benefizii onde aveva colmato Roma ed il mondo, Augusto aveva potuto parere il più grande dei Romani per aver impedito che l'impero perisse dilaniato nelle guerre intestine, e per la protezione sì largamente concessa agli studj ed all' arti liberali dar il suo nome all' età più splendida della letteratura.
   Se non che gli è chiaro che questa pace istessa non si potesse stabilire senza un cotale avvilimento degli animi, e che le lettere divenendo docili stromenti di regno dovessero alla loro volta perdere molta parte dell' antica sincerità e grandezza. 0 piegarsi alle nuove necessità dello stato assecondando in ogni modo i disegni del principe, o segregandosi affatto dalla cosa publica seguitar ad essere, come nel-1' età precedente avean cominciato, un aggradevole passatempo d'uomini colti ma oziosi. Voleva essere una letteratura che pagasse colle lodi o colla prudente dissimulazione la mano che la proteggeva, oppure l'arte per 1' arte. Nel che vuoisi però notare che quella conteneva ancora molti elementi di prosperità e di splendore; perocché al postutto l'opera a cui Augusto avea posto mano era a più di un titolo meritevole d'essere celebrata, e, pur tra le lodi del principe, la carità di patria e l'orgoglio nazionale potevano liberamente manifestarsi: questa invece era un segno evidente di fiacchezza, ed il principio istesso della decadenza.
   E prima a sentirne ì danni fu l'eloquenza, la quale insieme colla libertà aveva perduto le principali condizioni della sua floridezza, che erano : la varietà ed il genere delle cause, la qualità dei giudici e degli uditori, eie grandi ricompense cho solevano tener dietro al nome di sommo oratore.
   Dopoché la cognizione dei delitti publici e la podestà di far leggi erano state dal foro e dai comizii trasferite nella curia, e nella curia stessa le sentenze de' senatori erano bene spesso soggette alla volontà occulta o manifesta del principe, gli oratori non avendo più cause politiche da trattare nè leggi da discutere, privati ni breve d'ogni partecipazione al maneggio de'publici affari, furono ridotti, ciò che i loro più grandi antecessori non avean fatto quasi mai, a piatire di furti e di frodi davanti al tribunale de'centumviri. Alla giurisdizione del quale avevano già posto un gran limite le facoltà concesse al prefetto della città (2). Eravamo dunque già assai distanti dai tempi quando l'eloquenza apriva di per sè sola l'adito al potere, e la republica non essendo moderata da un solo, che dispensasse a suo beneplacito le dignità e gli onori, ciascun cittadino tanto valeva quanto sapeva persuadere e commuovere il popolo errante. Che se allora quasi ogni dì si facevano leggi e risonava continuo il nome del popolo, se i magistrati pernottavano assai volte concionando in ringhiera, se facili e frequenti erano le accuse di cittadini potenti e le nimicizie tradizionali nelle, famiglie, se di qui erano procedute quelle fazioni de'maggiorenti e quelle lotte del Senato contro la plebe che a lungo andare avevano dilacerata la republica, tutte queste cose però affinavano l'eloquenza e la colmavano di grandi premj, perchè chi più valeva nel dire, tanto più facilmente otteneva le magistrature, poteva più dei colleglli, aveva più favore dai grandi, più autorità nel Senato, più nome nella plebe- E gli oratori siffatti abbondavano eziandio di clienti nelle estere nazioni, onde i magistrati andando al governo delle provincia li riverivano, tornati ancora li ouoravano, preture e consolati pareva che li chiamassero, ed anche privati non erano senza podestà perchè reggevano col consiglio e coli' autorità il Sonato ed il popolo, e tenevano per certo che senza eloquenza non
   (1) E. Eggcr. Examen critique des historiens du regne rf'Auguste. Paris pag. 02-03,
   (2) TeufFel. Rum. Lit. pag. 509.