capitolo iv. — terza età'.
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§ 15. Il regno di Augusto*
Con queste sublimi speranze passava f ultima generazione degli scrittori re-publicani, lasciando una letteratura in parte già fluita, in parte poco distante da quella perfezione che l'uomo può coli'ingegno e collo studio conseguire (1). E il nuovo principato che entrava nei diritti della republica aveva obbligo non solo di custodire, ma di accrescere un sì vistoso patrimonio, pur studiandos di accomodarlo ai tempi ed alle cose nuove.
Il voto di Cicerone (2) che i suoi concittadini rapissero un dopo l'altro alla Grecia già languente i più bei tìori dell'arte e della scienza, era ben vicino ad adempiersi, perocché nella prosa essi potevano, come già si disse, contrapporre sicuramente lui a Demostene, Sallustio a Tucidide, Cesare a Senofonte, e se nella sola filosofia (che era quella appunto che Cicerone desiderava maggiormente di trasportare a Roma) erano rimasti gran pezza inferiori, nè aveano saputo escogitare alcun nuovo sistema, la colpa era più che della volontà degli uomini del genere istesso, troppo alieno dall' indole romana e recato già dai Greci ad un' altezza che non poteva facilmente essere superata. Nelle varie specie della poesia dramatica avevano oramai fatto tutto quanto l'ingegno e l'arte a loro permettevano; nell'epopea, nella satira, nella lirica e ne' vari generi di poesia sentimentale dopo Ennio e Lucilio, Lucrezio, Varrone, Catullo ed altri aveano spianata la via a Virgilio, ad Orazio, a Properzio, ad Ovidio.
Se non che quost'obbligo stesso, che ora dicemmo incombere al principato, era altrettanto grande quanto diffìcile, perocché implicava la soluzione di un grave problema, com' era quello di adattare alle condizioni di un governo monarchico una letteratura nata e cresciuta alla luce della libertà. E in verità, se noi ne abbiamo fin qui descritta appuntino la storia, si sarà veduto che le lettere romane avanzarono passo passo colla fortuna della republica, sentendo per ogni verso 1' azione dei costumi e delle politiche vicissitudini, di cui furono di volta in volta il più fedele ritratto. Caduta quella e venuta la somma delle cose nelle mani di un solo, era necessità che anch'esse mutassero, perocché ad alcune, come all'eloquenza, mancava adirittura la base e la cagione della pristina grandezza, a tutte il principato imponeva di que' Lmiti e doveri che le lettere non possono sostenere senza che insieme non se ne alteri profondamente la natura e la forma.
E mutar dovevano eziandio perchè ben altre erano oramai le opinioni ed i sentimenti della più parte dei cittadini: i quali, sopravissuti alle guerre civili, o nati dopo di esse, non avevano conosciuto la libertà o non ne ricordavano che i danni (3).
Quindi a quello spirito bellicoso, a quella gara d'onori, d'autorità, di potenza che altra volta ar mava ogni età ed ogni ordine di cittadini, e alla quale le lettere avevano largamente partecipato, era succeduto un invincibile abbattimento, una brama intensa di quiete, e come prima la guerra, così ora tutti chiedevano ed imploravano ad alte grida la pace. La qual voce non esprimeva soltanto un desiderio di volontà fiacche o sbigottite, ma un vero ed universale bisogno del tempo, ed era la sola speranza che ancora restasse ai Romani d poter, dopo tante stragi e su tante roi ne,
(1) Dell' eloquenza scriveva Cicerone nelle Toscolane (II, 2. o) che da umili principii arrivala al sommo ella dava già mdizii di vecchiezza e di decadenza. « Oratorum quidem laus ita, ducta ab humili, venit ad summum, ut jam, qrod natura fert iu omnibus fere rebus, senescat brevique tempore ad nihilum ventura videatur».
(2) Tusc. D.sp. II. 2. S. « Hortor omnes, qui facet e id possunt, ut huius quoque generis laudein jam languenti Graeciae eripiant et perferant in baile urbem, sicut reliquas omnes, quae quidem erant expeiendae, studio atque industria sua majoves uostri transtulcrunt ».
(3) Tacito. Annali, I. 3. scrive: « Juniores post Acliacam vieloriana, etiam senes plerique inter bella ciyium nati: quotusquisquo reliquus qui reirpublicam vidisset?