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Storia della Letteratura Romana

Cesare Tamagni
Francesco Vallardi Milano, 1874, pagine 590

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a cura di Federico Adamoli

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   172
   libro i'rimo.
   è già di per sè un forte indizio che non tutti i donimi d' una siffatta dottrina soddisfacevano alle tendenze dell'uomo, nè gli davano quella pace, quell'appagamento d'ogni desiderio che egli domandava. Difatti la repressione degli affetti, ed in specie del più soave e più potente di tutti, eh'è l'amore, la noncuranza di ogni cosa che non conduca alla tranquilla voluttà, ed a queir ozio impassibile, nel quale, a somiglianza degli Dei, dovrebbono anche i mortali menare beatamente la vita, alla perfine o non accontentano l'uomo, o lo annullano. Perocché, a malgrado di ogni dottrina che gli insegni il contrario, a malgrado di tutti gli artilizii d'una ragione, che vuol parer dotta ed è solamente più pervertita, la voce dei sentimento gli grida che egli ha una meta più alta da raggiungre, che la sua destinazione non è nè si breve nè si angusta come gli si vuol fare, e .che sopprimendo gli all'etti si estingue la sorgente stessa della vita, il principio e la cagione delle più nobili azioni. L'uomo che abbia sostenuto questa lotta contro sè medesimo ne esce o triste e desolato, o vizioso. Giacché anche il sorriso dell' epicureo più invecchiato non è mai senza una segreta amarezza, e se v' ha taluno già così corrotto che non la senta, dobbiamo dire che a queir animo la filosofia non ha dato la pace, ma la morte.
   Dal seno istesso di questa dottrina, nella quale i contemporanei di Lucrezio cercavano la verità ed il piacere, spuntavano non rade volte il dubbio e la tristezza, e chi più aveva bevuto in questa coppa della voluttà più acute ne sentiva le delusioni e le angoscie.
   Medio de fonte leporum Surglt amari aliquld, quod in ipsis ftoribus angat (1).
   E questa tristezza noi la ritroviamo in Lucrezio ad ogni passo; non già ch'egli, come alcuni pensarono, non fosse persuaso delle sue dottrine, e seguisse l'epicureismo a malincuore e come per disperazione: no, egli credeva ad Epicuro e lo venerava come un Dio, ma non poteva far tacere in sè medesimo la voce della natura, che si ribellava alla dottrina. Triste è adunque il suo poema coni' era triste l'animo suo; ritratto di una vita non felice, e imagine d'una gente condannata dalle colpe sue e degli avi ad inseguir senza posa un bene che sempre e dapertutto le sfuggiva.
   Che se la originalità di un componimento si misura dalla grandezza del fine, e dalla profondità dell'ispirazione, nessun poeta più originale di Lucrezio: e se per dirlo nazionale ci basta eh' esso ritragga il comune sentimento di un popolo in un' età importante della sua storia, nessun carme più romano del poema Della Natura. Nè cesserà mai di ammirarlo chi pensi eziandio contro quali difficoltà si dovesse allora combattere per significare col latino sì povero una tanta varietà e novità di cose e di pensieri, e veda come le sieno state felicemente superate.
   Ma i maggiori pregi di esso erano troppo congiunti coli' ingegno del poeta, perchè altri potesse sperare di imitarlo. Quindi esso restò son per dir solo di quel genere nella letteratura romana, come sola è la Divina Comedia nella nostra, quantunque la sua efficacia sia stata grandissima sui maggiori poeti del secolo che gli succedette. E difatti di molto gli vanno debitori Orazio e Virgilio; i quali veramente non lo nominano mai, ma a più di un segno mostrano d'esserne stati ammiratori e discepoli. Chè da lui tolsero i principii della filosofia naturale; e bene spesso lo additano chiaramente, come quando Virgilio nei secondo delle Georgiche chiama felice chi potè conoscere le cagioni delle cose, calpestando tutte le paure e l'inesorabile fato e lo strepito dell'avaro Acheronte (2), ed Orazio dove professa di non credere al miracolo dell1 incenso che brucia senza fuoco perchè, dice : ho imparato che gli Dei menano
   (1) IV. 4126
   (2) Felix qui potuit rerum coguoscere causas, Atque mctus omnes et inexorabile fatum Subjecit pedibus, strepitunnpie Acheronlis avari!
   (Georg. II, MO)