capitolo iv. — terza età'.
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Essa lo conteneva certamente in germe, e sorta per liberare gli uomini dalla servitù dell' errore, non è da meravigliare se li lasciasse in balia del peggiore di tutti, che è l'incredulità scostumata. Ma ciò non prova altro se non che le sette filosofiche non bastavano a curare i mali di queir età, e che per redimere l'uman genere dall'alijezione e dall'ignoranza non si doveva cacciare Iddio dal mondo nò sopprimere gli affetti, ma far li uno più grande e benefico, e porre agli altri una meta più sublime. E sopratutto attesta che se la filosofia anche più sana e vigorosa basta a formare la mente e l'animo di pochi eletti, poco o nulla giova alle moltitudini, le
luplatem habemus, quae percipitur omni dolore detracto ». Il sommo bene consisteva dunque secondo la vera dottrina di Epicuro non solo nella voluttà positiva, ma eziandio nell'assenza del dolore. 'Opò? tov peyiSovS rwv rjrJovàiv vj 7r
Ed un secolo dopo Lucrezio Seneca scriveva della filosofia di Epicuro : « In ea quidem ipse sen-tentia sum, invitis hoc nostris popularihus dicam, sancta Epicurum et recta praecipere et, si propius accesseris, tristia : voluptas eniin illa ad parvum et exile revocalur et quam nos virtù ti legein dicimus, eam ille dicit voluplati : iubet illam parere naturae, parum est autem luxui'iae quod naturae salis est » (De vita beala. 13).
Pertanto lo stoicismo e 1' epicureismo s'incontravano, come già si è detto, in ciò eh' entrambi comandavano l'obbedienza alla natura, la quale di assai poco si accontenta; e se l'uno riponeva il sommo bene nella virtù, l'altro nel piacere, gli epicurei credevano ancora di vincere i loro avversarli dicendo che le virtù non per altro sono desiderate e lodevoli, se non perchè arrecano un piacere. Difendevano la dottrina dell'utile contro quella dell'onesto, e volevan mostrare che questo alla perline nella niente dell'uomo saggio era una cosa sola con quello. Quindi, non che sciorre il freno ai sensi, l'epicureismo li conteneva: non che attizzare il fuoco delle passioni, le voleva spegnere, come quelle che insaziabili essendo, gli uomini, le famiglie e le nazioni traggono a rovina. La filosofia per sè era alta e severa, e non indegna di que'romani illustri che la professavano, ma era pur sempre una filosofia utilitaria, ed una volta detto che la voluttà era il sommo bene (oggi per parer nuovi e più serii si dice l'utile), tornava impossibile vietare che gli uomini corrottissimi di quel tempo ne torcessero il senso a comodo delle loro passioni. E i maestri greci che la insegnavano ai Romani nè potevano, nè volevano resistere alle interpretazioni del ricco discepolo, che d'una sì comoda dottrina li pagava con lauti banchetti.
Cicerone il quale s'era accorto di questa inclinazione de'suoi concittadini, e per cagion d'essa combatteva aspramente e con tutte l'armi Epicuro e l'epicureismo, ci dà nel discorso contro Pisene un saggio graziosissimo della disinvoltura, con cui i giovani dissoluti intendevano ed applicavano la dottrina della voluttà. E fingendo una conversazione tra Pisone ed un filosofo greco, che con molta semplicità gli espone la dottrina di Epicuro, dice che il giovane stallone non appena ebbe udito far tante lodi della voluttà, non volle saper d'altro, e contò aver trovato nel suo filosofo non un professor di virtù ma un maestro di dissolutezze. « Admissarius iste, simul atque audivit; a philosopho voluptaiem tantopere laudari, nihil expiscatus est : sic suos sensus cmnes yoluplarios incitavit, sic ad jllius liane eratienem adhinniit, ut non magistrum virtulis, sed auctorem libidinis a se illum inveutum arbitraretur. Graecus primo distinguere et dividere illa quemadmoduin dicerentur; iste claudus, quemadmodum ajunt, pilam: retinerc quod acccperat, testificari; tabulas obsignare velie: Epicurum desertum diceve. Eteniin dici', ut opinor, se nullum bonurn intelligere posse, demlis corporis vo-luptatibus. Quid multa? Graecus facilis et valde venustus, niinix pugnax contra Senatorem populi romani esse noluit» (In Pis. XXYIII).
Tamagni . Letteratura Romana 1%