Stai consultando: 'Storia della Letteratura Romana ', Cesare Tamagni

   

Pagina (184/608)       Pagina_Precedente Pagina_Successiva Indice Copertina      Pagina


Pagina (184/608)       Pagina_Precedente Pagina_Successiva Indice Copertina




Storia della Letteratura Romana

Cesare Tamagni
Francesco Vallardi Milano, 1874, pagine 590

Digitalizzazione OCR e Pubblicazione
a cura di Federico Adamoli

Aderisci al progetto!

   
[Progetto OCR]




[ Testo della pagina elaborato con OCR ]

   168
   libro i'rimo.
   turbassero la quiete dello spirito, cogliere l'ora che fugge e nella rimembranza delle passate voluttà pregustar le future: di nulla maravigliarsi ed in nulla oltrepassare la giusta misura (1); quest' era la dolce e soave filosofìa che Epicuro insegnava agli Ateniesi passati sotto il giogo della signoria Macedonica, e che s' offriva come farmaco alle ferite di quanti versassero come che fosse in angustie o sventure. Era un sereno quietismo evidentemente diverso dall'austera fortezza degli stoici; adatto ai tempi nei quali sorse e si propagò, e buono a produrre una generazione di lettorati, d' artisti, e di spiriti così colti e gentili come quelli che illustrarono 1' età di Menandro ed il secolo d'Augusto, non i grandi uomini che dovevano anche morendo resistere alla tirannide di Caligola, di Nerone, di Domiziano. Ma è giusto anche dire che come altri non potrebbe chiamarlo in colpa delle dissolutezze del tempo, le quali aveano ben più lontane e profonde cagioni, così non si devono disconoscere 1 bene-fizii che esso volle e fin ad un certo punto potè anche rendere alle sofferenze dell' umanità. La quale pativa allora di quel male, che invade le nazioni ogni qualvolta un grande rivolgimento venga a turbare degli ordini da gran tempo stabiliti, e scuotendo le massime, le credenze e le consuetudini su cui quelli si posavano, lasci lo stato senza base, e la società senza vincoli. La è una acuta stanchezza del presente non ancora confortata dalla fede in un miglior avvenire. Contro questo malessere gli uomini debbono pure cercare un rimedio od almeno un rifugio, e come il paganesimo in nessuna delle sue forme soddisfaceva nè alla curiosità della mente, nè ai nuovi bisogni della coscienza, erano sorte a prenderne il posto le scuole di filosofìa, dove accorrevano tutti coloro che avessero sete di sapere o desiderio di consolazioni. Ed Epicuro presumeva di soddisfare a tutti avendo, a detta de'suoi scolari, trovata la verità ed eretto sopra solidi fondamenti l'edilizio della vita beata (2).
   Difatti a quegli spìriti curiosi del vero che nè potevano appagarsi delle favole volgari intorno a Dio, al mondo, all'uomo, nè volevano ondeggiare perpetuamente nel dubbio, esso credeva offrire una dottrina semplice e compiuta sull'origine, e sulla destinazione degli uomini e delle cose, mentre d' altra parte negando la immortalità dell'anima, ed alla potenza de'Numi, fin lì creduta e temuta, surrogando l'azione benefica e permanente delle forze naturali, pensava d'aver disarmato quel--1' antico avversario della umana felicità, che è la religione. Mostrare che gli Dei non si curano degli affari nostri, e che morti torniamo in grembo alla materia eterna, per dare moto e principio ad altri esseri che dopo noi morranno, era parso ad Epicuro il modo più sicuro di rendere agli uomini la libertà e la pace. Sciolto dalla penosa soggezione agli Dei, dai vani terrori come dalle ingannevoli lusinghe della immortalità, non è egli vero che l'uomo si trova finalmente libero e solo dinnanzi a sè medesimo, e può a sua posta conseguire quella felicità che dalla natura sua madre e maestra gli venne concessa1? Se la sua destinazione deve compiersi quaggiù, ed egli non è sostanzialmente diverso dagli altri esseri che la natura crea e distrugge, come non gli debbono parer stolte e ridevoli le ambizioni, le cupidigie, e quante altre superbe cure tolgono ai mortali di passare aggradevolmente la vita1?
   Riassunta in questi termini, ognun vede che la dottrina del saggio di G-argetto, quantunque sostanzialmente materiale ed atea, era nel principio altra cosa da quel grossolano sensualismo che le procacciò in seguito una sì infelice rinomanza (3).
   (1) IN il admirari propc rcs est una Numici, Solaque quae possit facere et servare bealuin.
   Quest' è il notissimo precetto epicureo di Orazio.
   (2) Così Torquato nel libro mentovato cap. X: « totani rem ape.riam, eaque ipsa, quae ab ilio inventore vcritalis et quasi architecto beatae vitae dieta sunt, explicabo ».
   (3) Id. Ib. cap. XI. «Nunc autem explicabo voluptas ipsa quae qualisque sit, ul tollatur error oinnis imperitorum intelligaturque ea, quae voluptaria, delicata, molbs, babealur disciplina, quam gravis, quam continons, quam severa sit. Non enim hanc solain sequimur, quae sminiate aliqua naturam ipsam movst et cum jueunditole quadam pereipilur sensibus¦ secl maximum Ulani io-