CAPITOLO Iii. —- sEcondA ETÀ'. 167
equo concetto della dottrina di Epicuro, e sopratutto non abbia confuso l'epicureismo pratico, grossolano e volgare coli'epicureismo scientifico, la teorica colle conseguenze cbe ne furono derivate, la primitiva saggezza dol maestro cogli erramentì e le turpitudini di parecchi fra i suoi seguaci.
L'epicureismo e lo stoicismo nacquero ad un tempo da quel desiderio d'interna tranquillità e d'ozio contemplativo, che suol succedere ai grandi commovimenti politici e sociaL quando gli uomini stanchi e sfiduciati d'ogni altra cosa rientrano in sè medesimi, e nel perfezionamento delle proprie facoltà ristringono il supremo bene della vita E quantunque professassero massime assai diverse, e paressero l'uno diametralmente opposto all'altro, giunsero per logica necessità alia medesima conseguenza, che era di collocare il fine dell' uomo nell' uomo istesso, e la sua felicità nella piena e sicura indipendenza dalle cose esterne. Ambedue sebbene per vie diverse facevano gli uomini persuasi che la beatitudine consiste sopratutto nella padronanza di sè medesimi, cui non acquista se non chi conosca la verità, ed abbia saputo vincere le proprie passioni. Soltanto l'uomo saggio essere libero e felice: e saggio essere solamente colui che nè tema i fulmini degli irati Numi, nè permetta che il fumo degli alfetti umani salga ad ottenebrargli la serenità della mente. Che se gli Epicurei ponevano il supremo bene dell'uomo nella voluttà, e gli stoici nella virtù, ciò ancora non faceva una grande differenza, imperocché il piacere deg ur li s, accontentava della perfetta sanità del corpo e della mente, e la virtù degli altri era la imperturbabilità stessa dell' animo contro i casi quali si fossero della fortuna. A-lla perfine volevano la stessa cosa: ritirare gl uomini dalle tempeste della vita nel queto asilo della sapienza, dove dì poco contenti e sicuri di sè medesimi godessero della vista dello ambizioni, delle cupidigie e di tutte le misere gare degli altri, come chi ha toccato il lido soavemente contempla le fatiche de' miseri, che stanno tuttora a combattere co'flutti
« Suavs mari magno turbaniibus aequora veniis, E terra magnum alter ius spedare IcCoorem ; Non quia vexari quemquamst jucunda voluptas Sed quibus ipse malis eareas quia cernere suave est: Suavc etiam belli certamina magna tueri Per campos instructa, tua sino parte perieli, Sed nil dulcius est, bene quam munita tenere Edita d.oetrina sapientum tempia serena, Despicere unde queas alios passimque videre Errare atque viam palantis quaerere vitae, Certare ingenio, contendere nobilitate, Noctes atque dies niti praestante labore, Ad, summas emergere opes rerumque poltri. 0 miseras hominum mentes, o pectora caeca; Qualibus in tcnebris vitae quaMisque periclis Degitur hoc aevi quodeumque est! nonne videre Nil aliud sibi naturam latrare, nisi ut, cui Corpore sejunctus dolor absit, menti' fruatur Jncundo sensu, cura scmotu' metuque? »
Ed Epicuro pensava veramente che al corpo poche cose bastassero per torgli di sentire il dolore, onde di molte delicaiure si potesse comodamente far getto. Un tenore di vita sempliie e tranquillo, nel quale si usasse prudentemente del piacere per non incappare nel dolore, e il dolore si tollerasse quando ci potesse procurare un piacere, o preservare da un dolore più grande (1); moderare gli affetti sicché non
(1) È da vedere per questo la esposizione della filosofia epicurea che fa L. Manlio Torquato nel 1° libro Dei Fini, ed in ispccie i capitoli X ed X