CAPITOLO Iii. —- sEcondA ETÀ'. 159
Dunque considerando le condizioni della poesia in questo periodo, noi vediamo :
1. Glie essa era coltivata da un certo numero d'uomini politici per cagione di diletto, professata da altri clie vissero alieni da ogni cosa puhlica.
2. Che essa fu grandemente ajutata dal bisogno dì ricercare nell' arte una distrazione ed uno sfogo alla tristezza destata dalle sventure cittadine; per cagion delle quali erano sorti nell'animo di molta gente di que'dubbj, che solo la scienza poteva risolvere e la poesia illuminare della vivida sua luce. Essa fu quindi principalmente didattica, e per la prima volta lirica; perchè non mai per lo innanzi i Romani avevano avuto agio o necessità di ascoltare la voce di quell'intimo senso da cui la poesia lirica emana.
3. Che la lingua poetica avea bisogno di deporre molta parte dell'antica durezza, d'essere più uguale, più chiara, più copiosa ed insieme col verso ancora troppo tardo e grave, più rapida e sonora.
Per venire a quest'ultima perfezione che è il fine dell'arte, le abbisognavano quindi tre cose: de'grandi ingegni poetici, de'tempi tranquilli e degli esemplari che si potessero imitare sicuramente cosi per le cose come per le parole. I primi non le mancarono, nè seguitando le orme de' Greci poteva aver penuria degli ultimi : la tranquillità de' tempi le fu invece negata, e doveva in essa soltanto compiersi la maturità della poesia latina, quando a celebrare le lodi di Augusto Orazio scriveva:
Hoc po.ces Jiabucre bonae ventique secundi Eomae (1).
Che se torniamo col nostro racconto ai vara generi di poesia, di cui fu detto nel capitolo antecedente, per osservare qual1 nella presente età più fiorissero, quali decadessero, e quali generi della letteratura greca fossero ìli ispecial modo presi ad imitare dagli scrittori latini, noi vediamo subito venir meno la buona poesia dramatica, perocché i mimi prendono liei publico favore il posto della comedia, e la tragedia viene a poco a poco esclusa dal teatro, sinché diventa, come certi drami romantici dell' età nostra, un mero componimento letterario ; letto dai dotti e dai curiosi ma ignoto alle moltitudini, e quindi privo di ogni efficacia sulla vita e sulla società. Dopoché anche le atellane furono entrate con Nevio e Pomponio a far parte della letteratura, l'ingegno dramatìco de'Romani parve isterilirsi, giacché nè dopo Plauto e Terenzio abbiamo un solo bel nome di poeta comico in questa e nelle successive età, nè le tragedie di Quinto Cicerone, od anchè le più celebrate di Vario e di Ovidio ebbero mai altri applausi che quelli de'pochi amici che le leggevano.
Ai mimi adunque spettò quasi per luterò 111 questo secolo la signoria e l'onore delle scene romane. Ed esse furono calcate non soltanto dai pie' nudi di volgari buffoni e ballerini (2), ma eziandio da uomini di alti natali, finché venisse il giorno che a soddisfare una matta brama di applausi popolari vi salissero gli stessi imperatori. Del che le cagion appariranno chiare, quando s: pensi all'impero della moda, il quale non è meno potente e capriccioso nelle lettere che nell' altre cose umane, e si consideri inoltre che quanto era difficile rinnovare coli'imitazione del teatro greco quelle maraviglie che sono le comedie di Plauto e Terenzio, altrettanto riusciva facile di piacere al publico con un genere dramatico, che di per sè stesso era l'imitazione dei più brutti e più ridevoh vizii del secolo. Nè si deve per ultimo tacere che i mimi fiorirono in questa età per ciò che, come già la comedia, la tragedia e le atellane nell'altra, furono alla loro volta trattate da valenti scrittori. Quel che per la palliata avean fatto Plauto e Terenzio Afranio per la togata, Novio e Pomponio per le atellane, fecero per i mimi Decimo Laberio, e Pubblio Siro (3). 1 quali,
(1) Ep. II. I, 102, 3.
(2) Vedi pag. 104.
(5) « L'accidenl qui leur donne altcrnaliyeiuent pour interprete tanlòt un écrivain de falent, lantòt un écr ain mediocre, leur nouveauté ou leur èpuisement, l'altrait plu£ ou moir.s vifqu'ils