CAPITOLO IV. — TERZA ETÀ*.
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latina, elle se non riuscì, come voleva Cicerone, più doviziosa della greca, non le fu tuttavia inferiore nella precisione e nella chiarezza, e nella energia delle frasi come nella vivezza de'traslati talvolta fors' anche la vinse (1). Pertanto, se ne togliamo il solo Tito Livio, 1' età classica della prosa latina si può diro che termini colla republica, perchè con essa eran cessate eziandio molte di quelle cause che 1' avevano condotta a tanta altezza.
Diversa sorte ebbe la poesia, sia perchè l'essere lontana dalla vita publica le impedisse di sentire l'azione di quelle forze che avevano in sì breve tempo fatto progredire la prosa, sia perchè in una letteratura tanto artificiale qual' era la romana, la formazione della lingua e dello stile poetico fosse cosa oltremodo difficile. Di qui il fatto contrario sì alle comuni dottrine, sì agli esempi d' altre letterature, che a Roma si formasse assai più presto la lingua degli oratori che non quella de'poeti. E come nella stor i di questa singolare letteratura ogni cosa par contraddire a quelle opi-niou che ,iù si tengono certe e sono veramente più divulgate, le sorgenti più vive e'cop>»se della poesia latina in questi ultimi anni sono da cercare non tanto nelle lotte degl eserciti e delle nemiche fazioni quanto in quella stanchezza ed in quel fastidio d'ogni cosa publica che in conseguenza di esse invadeva ogni dì più gli animi e le menti di tutti. La poesia fu coltivata dagl: uomini politici, da Ortensio, da Yarrone, da Calvo, da Quinto e da Marco Cicerone, da Cesare e da altri molti come un aggradevole passatempo, ed uno svago dalle cure della pace o della guerra. Erano essi i dilettanti della poesia, uomini che poetavano per amor dell' arte, per esercizio di stile, o per seguire 1' andazzo del secolo e l'umor nuovo del popolo, che ora s'era dato a far versi con quello stesso fervore, che altra volta metteva a curare g! affari proprii ed altrui.
Romae dulce din full et solemne, reclusa Mane domo vigilare, clienti promere jura; Cautos nominibus rectis expendere nummos; Majores audire, minori dicere, per qucv Crescere res posset, minui damnosa libido. Mutavit mentem populus levis, et calet uno Scribendi studio; puerique patresque severi Fronde comas vincti coenant et carmina dictant (2).
Così negli ultimi anni della sua vita scriveva Orazio ad Augusto, ricordando con sottile ironia al padrone della sua Roma corn' ei 1' avesse sì bene pacificata, che degli antichi spiriti operosi ed austeri non rimanesse piìi traccia, e de demlo insieme piacevolmente tale innocente manìa de'suoi concittadin.
Ma prima ancora che Augusto recasse ai Romani colla servitù la pace, molti di essi afflitti dal quotidiano spettacolo delle guerre intestine, indignati della generale corruzione o sazii de'viz istessi, ne'quali aveano indarno per lunghi anni cercato un' ora di vera contentezza, di tutto annojati, perchè alla fine di tutto trovavano stanchezza, vanità e disinganni, molti, dico, si ritraevano già come in sicuro porto agli studii più miti e sereni della poesia, chiedendo all' arte quelle consolazioni e quella tranquillità che non dava più il mondo (3). Da tali sentimenti e da una siffatta disposizione degli animi nacquero i più bei frutti della poesia latina in questo secolo. Non che tutti i cultori di essa sieno vissuti fuori de'publici negozii, peroccLì molti, e li nominammo, vi presero anzi larga e splendida parte; ma si in
(1) Da fìni'ous, 1. 5. «Non est omnino hic dicendi locus; sed ita sentio et saepe disserui lalinam imguam non modo non inopem, ut vulgo putarent, sed locupletiorem etiam esse quam Graocam». È una esagerazione che fa riscontro a queir altra, che abbiamo mentovata in calce alla quinta pagina di questo libro.
(2) Horat. Ep. II. 1. 103, ecc.
(3) Vedi anche sopra a pag. 141.