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Storia della Letteratura Romana

Cesare Tamagni
Francesco Vallardi Milano, 1874, pagine 590

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a cura di Federico Adamoli

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   LIBRO I'RIMO.
   e lo opere, le sventure e le glorie, le virtù come gli errori di una età tanto chiara e fortunosa quanto furono gli ultimi anni della repuhlica, si può bene asserire con fiducia che queir uomo fu grande, e lasciar gridare a sua posta chi ci voglia contraddire (1).
   Considerando i tempi ne' quali son scritte le tante e sì varie opere di Cicerone, noi vediamo che la più parte delle orazioni appartengono alla prima metà di questo periodo, e sono quelle mediante le quali egli arrivò di grado in grado al sommo degli onori e della dignità, che un cittadino potesse conseguire: gli scritti retorici o filosofici cadono invece tutti quanti nell' altra parte, quando, fosse tedio o necessità, veniva ritirandosi dai publici affari, lasciando il posto a coloro che erano stati più accorti o più fortunati di lui (2). Or bene, in que' primi vent' anni da una gente la quale, seguendo di buona voglia le novità negli studii ed amando sinceramente il sapere, riteneva però ancora delle età passate la fede alle vecchie istituzioni della republica, erano usciti, come già si è visto, insieme con Cicerone altri uomini chiari
   (1) Voglio alludere massimamente al giudizio di Teodoro Mommsen, che per non so quale superbo dispetto, disdicevole veramente ad un così chiaro cultore delle lettere romane, assomigliò Cicerone ad un gazzettiere, e negandogli ogni lode di scrittore, a mala pena si degnò di chiamarlo uno stilista.
   In questo biasimo dell'' illustre storico vi è un doppio errore, il quale va facendosi comune tra gli scrittori ed i politici anche più rinomati dei nostri vicini d1 olir1 Alpe. Perocché essi, che pur tanto studiano la storia e l1 antica letteratura romana, danno a molti segni chiaro indizio di mancare d'alcuna tra le qualità necessarie per bene intenderla, e sono principalmente: una giusta cognizione della nostra indole nazionale, ed una degna stima dell'arte della parola per sé medesima. Quella mobilità d'animo e di mente ch'era il proprio fondo del carattere di Cicerone, quell'ingegno vario e versatile, e più quel sentimento sì molle e delicato che, come foglia al vento, si piegava a tutte le impressioni di una fantasia altrettanto mutevole quant' era viva e ferace, non sono le qualità che più possano piacere alla solida ma bene spesso lenta e grave natura de'tedeschi. Eppure di così perigliosi doni di natura che uso non seppero fare anche dopo Cicerone i nostri più grandi scrittori ? che maraviglie non ne trassero d' arte e di poesia ? e quali pagine gloriose non furono per essi scritte negli annali nostri? È vero che perciò noi fumino bene spesso, come Cicerone, vittima di avversarli più scaltri o più forti: ma anche soggiacendo abbiamo lasciato degli insegnamenti e degli esempii che non andarono perduti pei vincitori. E di più, quella mobilità, o se piace meglio, quella incostanza di pareri e di voglie era essa medesima in Roma una conseguenza del governo libero, il quale, se vuol durare, impone agli uomini ed ai partiti politici il dovere non solo di rispettarsi a vicenda, ma eziandio di mutarsi a seconda dei casi e delle necessità della patria.
   L' altro errore è quello di credere che la nitidezza e lo splendore della forma sia per sè poca cosa nei meriti di uno scrittore. Chiamar Cicerone un grande stilista per negargli il nome di scrittore, è un voler disgiungere a bella posta e con mal animo due qualità che la natura e l'arte hanno in lui mirabilmente congiunte, e stabilire un precetto, il quale a quanti lo osservassero leverebbe in breve tratto la possibilità d'essere buoni scrittori. Noi continueremo dunque a credere con Cicerone che lo stile sia ottimo maestro del dire, ed ascriveremo a somma ventura delle nostre lettere, se esse potranno arricchirsi di stilisti italiani sì valenti, come Cicerone fu valente stilista latino. Alla quale lode non pare che aspirino que' connazionali di T. Mommsen, i quali diversamente da lui, che è altissimo scrittore, della squisitissima lingua e dello stile greco e latino discorrono in una favella semi-barbara e con nessuno stile. Dovremo noi non ostante, o forse per ciò appunto distinguerli col nome di scrittori, che agli stilisti non si vuol concedere ?
   (2) In varii passi de' dialoghi filosofici dà di questi suoi studii un più alto e nobile motivo, che era quello di giovare ai suoi concittadini anche nell' ozio, e di renderli più dotti e sapienti. « Phi-losophia, dice nel primo delle Toscolane, illustrando, et excitanda nobis est, ut si occupali prò-fuimus aliquid civibus noslris, prositnus eliam, si possumus, odiosi ». E nel primo Dei Fini. (4.10) « Ego vero, quoniam forensibus operis, laboribus, periculis non deseruisse mihi videor praesidium, in quo a populo romano locatus sum, debeo profeclo qucmtiimcunque possimi in co quoque elaborare, ni sinl opera, studio, labore meo doctiorcs cives mei»,