118
LIBRO PKIMO.
stesso disse, in Roma una scienza avventizia e trasmarina, molti ancora la credevano inutile, pensando che la facoltà dell' oratore non avesse che fare colla scienza, ma consistesse tutta quanta in un certo genere d'ingegno e di esercitazioni. E questa era appunto la controversia tra Cicerone e suo fratello Quinto, che diede origine al libro.
Non mancavano, come già dicemmo, in Roma oratori autodidacti, formati, cioè, a nessuna scuola, i qualj giudicavano clic l'ingegno e la pratica stessa del foro bastassero, dov'altri credeva necessarii lunghi studii e moltissime cognizioni. Ora incombeva a Cicerone l'obbligo di dimostrare che una scienza del dire vi fosse e quale fosse, e che senza di essa non era oramai possibile aquistar lode di buono oratore. E mi piace anche soggiungere che nessuno prima o meglio di lui poteva trattare sì vasto assunto, com' era quello che abbracciava 1' universa dottrina dell'eloquenza, perchè nessuno avea avuto pari alni l'ingegno ed il sapere, nè alle lezioni dell' altrui esperienza avea potuto aggiungere tanta dovizia della propria. L'eloquenza era stata fin quasi a Cicerone una ingenita facondia, governata ed accresciuta dalla pratica: egli per il primo la elevò in Roma a dignità di scienza, e le diede, giova dirlo, non ostante il molto che imparò dai Greci, indole e forma squisitamente romana.
Contro l'altro genere di obiezioni, che ferivano in ispecial modo il suo fare oratorio e la scuola ch'egli si studiava di fondare coi suoi precetti ed esempi, scrisse più tardi e quasi negli ultimi anni della sua vita i dialoghi già mentovati del Bruto, dell'Oratore, e l'opuscoletto sull'ottimo genere degli oratori. Siamo già negli anni per lui dolorosissimi della dittatura di Cesare, quando, non potendo altrimenti essere utile alla republica ed agli amici coli' arte sua, dava in casa lezioni di eloquenza ad lrzio, a Bolabella, a l'ansa e ad altri illustri giovani. Così, diceva egli, ipso mollar fio, primum valetudine quam intormissis exercitationibus amiseram ; deinde ipsa illa si qua fuit in me faculias orationis, nisi me ad has orationos retutissem, exaruisset.
Ma 111 questi anni medesimi il bisogno di trovar pace e di confortare 1' animo oppresso da varie e pungentissiine molestie lo traeva ad altri studj, lo costringeva, ciò che forse in più lieta condizione di cose non avrebbe fatto, a scrivere dopo le orazioni ed i libri retorici anche opere di filosofia.
Seguendo sempre quel senso pratico che muoveva i Romani a cercare in ogni studio ciò che poteva avere di utile per sè e per la patria, Cicerone coltivò dapprima la filosofia come ajuto all'eloquenza ed all'arte del governo, nè si accinse a scrivere innanzi che i casi proprii e della republica gli ebbero negato ogni altro mezzo di onesta ed aggradevole occupazione. Egli conosceva benissimo l'umore dei suoi concittadini avverso a questi studj, anche in que' medesimi che pure non li disprezzavano, quando fossero usati a colmare le ore oziose ed a ricreare lo spirito con gioconde meditazioni e colloquii. Pertanto non ne fece dapprincipio aperta professione, e solo cercò di persuadere altrui coli'esempio che, madre di ogni sapere, la filosofia era anche ottima maestra delle arti e delle virtù più utili allo stato. E quando pure cominciò a volgere in latino i dettami delle scuole più rinomate della Grecia, volle render ragione delle sue intenzioni, e, confutando le censure degli avversarli, esortare altri ad imitarlo: come fece coli'Ortensio, che fu quasi il manifesto, o diremmo la prefazione dello sue opere filosofiche, col proemio del Dialogo intorno ai fini del bene e del male ; e vi tornò spesso ni pressoché tutti i suoi scritti.
Cicerone scrisse di filosofia nel primo decennio del secolo ottavo, che fu anche l'ultimo della sua vita ; e se ne togliamo i due dialoghi della republica e delle leggi, che meglio si possono chiamare libri politici, dalla primavera del 708 a tutto il 710. Gli era morta nel 709 Tulliola, la sua diletta figliuola, e la republica era uelle mani di Cesare per cadere l'anno vegnente nella più trista balia di Antonio. Quindi dalla villa d'Anzio scriveva in quell'anno ad Attico annunziandogli la composizione degli Aeademici e del dialogo dei Fini « ego hio duo magna aHayfxara assolvi : nullo