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Storia della Letteratura Romana

Cesare Tamagni
Francesco Vallardi Milano, 1874, pagine 590

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a cura di Federico Adamoli

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   CAPITOLO Iii. —- sEcondA ETÀ'.
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   Morto Ortensio — e fu gran fortuna per lui, che la morte gli risparmiasse il dolore e la vergogna di veder tolta per le armi civili la libertà della parola agli oratori — Cicerone era oramai senza rivali in Roma, e pareva che con quel suo nuovo genere di eloquenza, che egli s' era studiato di creare, scegliendo il meglio dalle opposte scuole e schivandone con cura diligentissima i difetti, avesse raggiunto il sommo dell'arte, sicché agli oratori, che fossero per succederg' , non rimanesse che di seguirlo nella via, che da lui primamente era stata aperta. Perocché so in que' primi momenti di giovanile fervore gli era piaciuto il genere dì Ortensio, e in esso aveva anche scrìtto qualcuna delle sue orazioni, più tardi i maggiori studj, l'età, e più che tutto gli insegnamenti del retore Molone lo avean ridotto a più moderati consigli ; e temperando col fare semplice e schietto degli attici quel soverchio di gonfiezza che ai gusti delicati dava noja negli asiaiici, si era riposato in quoi genere intermedio che avea preso legge e nome dalla celebre scuola di Rodi. Pareva a lui che questo fosse ancora grandemente acconcio all'eloquenza dei coniizii e del foro, dove s'aveva a lottare bene spesso collo strepito e coi tumulti delle fazioni, e non potesse insieme dispiacere alle forbite orecchie di quel gran numero d'uditori addottrinati e di sottile intendimento, che in una città tanto colta, com' era la Roma di que'tempi, si erano già fatti giudici autorevoli e temuti degli oratori, come d'ogni altro genere d' arte e di letteratura (1).
   Ma appunto tra costoro, ed a poco a poco tra gli oratori medesimi del suo tempo, trovò Cicerone chi lo biasimasse d'essore ancora troppo asiatico, e proponesse adirittura di tornare alla piana e sottile eloquenza degli attici, per quanto potesse parer arida ed esangue. Eran questi gli attici nuovi, che i pregi degli antichi convertivano in vizii o per impotenza o per proposito di esagerarli, e dettero a Cicerone un' aspra battaglia, l'eco della quale ancora si sente negli scritti retorici d'un secolo dopo. « M. Tullium, dice Quintiliano, suorum homines temporum incessere audebant ut tumidiorem et Asianum et redundantem et in repetitionìbus nimium et in salibus frigidum et in compositione fraetum, exsultantem ae paene, quod procul absit, viro molliorem. —Praecipue vero presserunt eum qui videri Attìcorum imitatores concupierant. Ilaec manus, quasi quibusdam sacris initiata, ut alìenigenam et parum studiosum devinctumque illis iegibus insequebatur, unde nunc quoque aridi et exsucci et exsangues. Hi sunt enim, qui suae imbecillitati sanitatis appella-tionem, quae est maxime contraria, obtendunt; qui, quia clariorem vim eloquentiae velut solem ferre non possimi, umbra magni nominis delitescunt (XII. 10. 12). Né diversamente, ma con minore benevolenza per Cicerone, o forse con maggiore imparzialità, l'autore del dialogo degli oratori: « Satis constai ne Ciceroni quidem obtre-ctatores defuisse, quibus injlatuset tumens nec satis pressus, sed supra modum exul-tans et superfluens et parum Aiticus videretur. Legitis utique et Calvi et Bruti ad Ciceronem missas epistolas, ex quibus facile est deprehendere, Calvum quidem Ciceroni visum exso.nguem et altritum, Brutum auiem otiosum atque dijunctum; rur-susque Ciceronem a Calvo quidem male audisse tamquam solutum atque encrvem, a Bruto autem, ut ipsius verbis utar, tamquam fraetum atque elumbem (cap. 18) ».
   Queste preziose testimonianze basterebbero a farci conoscere il tenore e la vivacità di quella controversia, e come dagli stessi amici non gli fossero risparmiati i biasimi più severi, anche se non sopravivessero il Dialogo degli illustri oratori, 1' 0-ratore, ed il libello Dell' ottimo genere degli oratori, dove con altrettanto spirito, quant' era la sua dottrina ed esperienza del foro, Cicerone ribatte i vituperi degli av-
   (1) Cicerone ricorda n più d'un passo i giudizii di queste persone, ed avido com' è di lode, ne fa gran conto. Essi son detti da lui dodi, intellegentes : e sentenziavano per virtù delle tereies aures e di queir intellegens judicium che noi chiamiamo buon gusto. Se però gli siano conlrarii, s' accontenta di chiamarli quidam, nonnulli, e si lagna di quel loro fastidio che li faceva essere giudici troppo severi e non di rado anche ingiusti. Vedi De Opt. gener orat, 1.18 Orator. G6-156.181. 188. 119 161. e de Claris Oratoribus passim.
   Tamagni. Letteratura Homma. \o.