CAPITOLO Iii. —- sEcondA ETÀ'. 143
reva meno dell'ingegno vario e pieghevole, della pronta e vivace fantasia, della facondia e dell' agile mano di quel grandissimo tra gli scrittori. 11 quale come da natura aveva sortito tutte le doti dell'oratore, così le aveva per tempo educate ed accresciute con studj indefessi intorno a tutti i rami del sapere, bene intendendo quanto a commuovere e persuadere una gente colta e già scaltra negli infingimenti del discorso giovasse aver la mente ornata di molta e varia dottrina, e la favella non solo chiara e propria, ma acuta, dilettevole, elegante. E a questo fine molto gli valse lo studio dei maestri della greca eloquenza, e 1' esempio degli oratori che lo avevano preceduto. Dei quali rilevò con attenta considerazione i difetti per evitarli, ed imitò i pregi recandoli all' ultimo grado di perfezione. E questa fu la lode che non solo nel segreto dell'animo suo, ma palesemente più volte si attribuiva, di avere nelle sue orazioni adunate le qualità varie e molteplici che negli altri andavano disperse.
Così mentre nelle ultime pagine del Bruto ci vuol descrivere l'imagine del perfetto oratore, la quale in nessuno dei suoi antecessori si scorgeva, egli fa in bella maniera il ritratto di sè medesimo con queste eloquentissime parole : « Nermo erat, qui virleretur exquisitius qua.m vulgus hominum studuisse literis, quibus fons perfectae eloquentiae continetur ; ncmo, qui pliilosophiam camplexus esset, matrern omnium bene factorum bcneque clictorum; nemo, qui jus civile didicis-set, rem ad privatas causas et ad oratoris prudentiam maxime necessariam; nemo, qui memoriam rerum romanarum tenerci, ex qua, si quando opus esset, ab inferis locupletissimos testes excitaret; nemo, qui brcviter argutequc incluso adversario laxaret judicum animos atque a severitate paulisper ad Uilarìtatem risumque traduceret; ^emo, qui dilatare posset, atque a propria ac definita dispu-tatione hominis ac temporis ad communem quacstionem universi generis orationem traducere; nemo, qui deleclandi gratia digredi parumper a causa; nemo, qui ad iracundiam magno opere judicem, nemo, qui ad Jìetum posset adducere; nemo, qui animum ejus, quod est oratoris maxime proprium, quocumque res postulare t impellere (322)».E più sopra, dopo ricordato l'anno nei quale Crasso recitò la famosa orazione per la legge Servilia, che fu il 618 della Republica, l'anno stesso della sua nascita, di proposito e con evidente compiacenza avea detto: « Quod idcirco posili, ut dicendi latine prima maturitas in qua aetat-e extitissct posset notari, et intelle-geretur jam ad summum paone esse perductam, ut eo niliil ferme quisquam adderò posset, nisi qui a pìdlosopida, ajure civili, ab historia fuisset insìructior». E come Bruto gli domanda: eri1 aut jam est iste quem expectas? egli risponde: Nescio: col l'aria d'un che voglia eludere una domanda che gli sembra inutile.
Fu egli dunque 1 primo a toccare quell'eccellenza che agli altri era mancata, ma giova anche osservare che in un tempo, quando l'arte dei dire era dopo l'arte del capitano il mezzo più acconcio a conseguire onori e potenza nella republica (1), non era picciola fortuna essere succeduto ad una numerosa ed illustre schiera d'oratori. Perocché veniva in certo modo a cogliere i frutti delle loro fatiche, potendo tra i varii generi d' eloquenza che i maestri avean recato in Roma dalia Grecia, e che i suoi antecessori od ugual si erano studiati di imitare, vedere qual fosse più consentaneo al suo ingegno, e nel fatto più efficace suiiJ animo degli uditori
E dacché l'eloquenza,, per usare una imagine felicissima di lui stesso, uscita una volta dal Pireo, era ita pellegrinando per le isole dell'Egeo e per tutta l'Asia, perdendo tra i barbari costumi di que'paesi la sanità del dire attico, e quasi disimpa-
sere stato .1 primo tra coloro i quali liberaliter eruditi, adhibita etiam'disserendi clegantia, rafionc et vìa philosophanlur. Il terzo di que' filosofi è notissimo per la bella satira di Orazio (II. 4) che incor: nciu; Unde et quo Catim? Eppure libri e dottrine siffatte occuparono in breve tempo se non tutta Italia, come dice con troppa enfasi Cicerone, il mezzodì di essa; e tra i molli Campani, nelle ceneri di Ercolano noi troviamo oggi buona parte degli scritti di Fedro, Filodemo ed altri Epicurei di questa età.
(1) Vedi § U. pag. 95.