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Storia della Letteratura Romana

Cesare Tamagni
Francesco Vallardi Milano, 1874, pagine 590

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a cura di Federico Adamoli

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   capitolo iii. —- seconda età'.
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   tòon ogni cosa mutare a certi intervalli eziandio le lingue. E ne fosser cagione la nascita, o il vivere in provincia, od affettazione ebbe Cicerone a riprendere anche in qualche oratore de'suoi tempi questo sentore di antichità rusticana (1).
   Finalmente per conoscere ciò che le due lingue possono essersi prestato a vicenda, e giudicare rettamente della parte d'influenza che 1' una ebbe ne' varii momenti sull'altra, è mestieri tener distinte quelle mutazioni, ohe furon fatte già innanzi la separazione e che pertanto sono comuni ad entrambi, da quelle che avvennero più tardi quando le due lingue eran divise, e che dall' una passarono noli' altra. Della prima specie sono per es., il mutamento più volte ricordato della S in R compiuto innanzi che spirasse il quinto secolo, e la caduta della S davanti alle liquide, che ci diede da triresmos triremos e luna da losna; esempi dell' altra specie che attestano 1' azione della lingua plebea sulla classica si hanno manifesti in parecchi nomi e forme verbai (valga per tutte dixere—clixerunt), ma più che tutto nella pronunzia e nella conseguente scrittura delle vocali e dei dittonghi Qui il corso fatale della lingua fu potuto dirigere, ma non fermare, e non passò secolo che gli scrittori e le scuole non dovessero riconoscere e sancire qualche nuova mutazione.
   Gli effetti della urbanità sul dialetto veggonsi, non però ancora in questa età, ma nelle posteriori, nella trasformazione delle voci greche. Cosi, a cagion d'esempio, la labbiale aspirata f che i Romani degli antichissimi tempi ed eziandio di questi rendevano colla tenue labbiale, mutando ticpyvpz in purpura, a.    In queste condizioni era la lingua latina in Roma, nel Lazio e, dopo la soggezione della Campania, anche lungo i lidi inferiori del mar Tirreno, quando col felice esito della guerra sociale si distese dominatrice sul resto della vinta Italia, e colla distruzione de' dialetti nativi diede nascimento ad un' altra lingua volgare, che fu l latino delle proviucie. Cosi, allorché sul cadere del settimo secolo la letteratura romana entrava nel periodo della sua massima floridezza, e la Republica stava per finire, Roma e l'Italia avevano tre favelle : 1' urbana, eh' era la lingua dello stato e della letteratura, la rustica, della plebe e del contado, e la provinciale,che alla sua volta si divideva in tanti idiomi diversi quant' erano le città e le genti che la parlavano. Dopo essersi mutato nel tempo, il prisco latino si variava infinitamente dentro e fuori di Roma anche nello spazio.
   Con questi primi elementi del parlare e dello scrivere sì in versi, sì in prosa,
   (1) Tale era quel L. Cotta, di cui si discorre più volle nel BrvM e nel De Oratore ; uno clic per affettare la lingua degli antichi oratori finiva a parlare coinè i contadini. « L. Cotta gaudere mihi videtur gravitate lingua} sonoque vocis agresti et illud, quod loquitur, priscum visum tri putat, si piane fiierit rusticanum. » E la lingua di lui, coinè d' altri oratori, prendeva colore contadinesco massime col dilatare il suono delle vocali, dicendo per es., sempre E per I; vea, velia, speca, ameci, per via, villa, spica, amici; uso, che vive oggi ancora in molli de'nostri dialetti, ma di cui s'offendeva l'orecchio delicato di Cicerone, talché coloro i quali in tal guisa pronunziavano pareva a lui che imitassero non gli antichi oratori, sì bene i mietitori Qion mihi oralorcs antiquos, sed messores videntur imitari).
   (2) y — ph nel Ialino classico ci compare nelle voci neo-latine ora con p, ora, ed assai più spesso cori f. Ci donno, a cagion d'esempio, il p : Giuseppe — Josephus, zampogna = symphonia, colpo = colaphus, mentre per restare nei nomi più comuni copìdnus, phusianus, phantasma, e mille consimili Sventano cofano, fagiano, fantasma e via via. (Vedi sopra a pag. 31, e nota 1.)