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Storia della Letteratura Romana

Cesare Tamagni
Francesco Vallardi Milano, 1874, pagine 590

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a cura di Federico Adamoli

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   capitolo iii. —- seconda età'.
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   P orecchio l'unico suono di un e aperto, ed il dittongo oi nelle sillabe radicali si fece ora u come in universum, vommunis, ora oe come m posnicus, foederatus, mentre nelle flessioni ci diede il dativo singolare o, e dopo vane mutazioni alla perline i nominativi e dativi plurali i, is.
   3.° Quanto alle voci in genere, per quella medesima tendenza che portava ogni giorno le doppie a semplilicarsi e le lunghe ad accorciarsi, la lingua classica mostra già in questa età di preferire le vocali chiare e squillanti alle cupe ed oscure: tra le vocali brevi prediligendo Vi, e meno d'ogni altra Vo, a cui per una singolare contraddizione viene man mano surrogando Vii. Così s'ebbero navìbus da navebus, verro e verta da vorro e vorto, libet da lubet, bonus da bonos; quantunque sia giusto dire che parte di queste mutazioni si compirono soltanto nel secolo seguente, che per amore d'antichità alcune di queste forme, quali maxumus, iubido, allumare furono usate anche da scrittori classici, e che per essere congiunto col V l'O si conservò lungamente (fino a Quintiliano, come già abbiamo detto) in vorsus, quom, cervos, servos, volgus, ecc. E Augusto non temette di prendere dal dialetto plebeo ,il genitivo domos, che adoperava in luogo del classico domus, mentre per una analogia facile da vedere, ma non accolta nell' uso, pronunziava e scriveva simus per sumus.
   L'os del genitivo singolare della 3a che s'era fatto us, e poi es già prima della
   seconda guerra punica, divenne in seguito is ; e nella quarta declinazione (u)is, us contratto, ed i (= ui) che visse lungamente in senati, tumulti, ecc.
   Consegue poi chiaramente dalle cose premesse, che la lingua scritta del sesto secolo lino ai primi vent'anir incirca del settimo dovette contenere forme e voci plebee in molta maggior copia che non la illustre favella dell' età posteriori, sì per essere più recente la separazione e però più vicine entrambi alla madre comune, si perchè V efficacia degli scrittori 11011 poteva essere sul principio tanta e sì generale come fu in appresso (1). Di qui venne che già al tempo di Cicerone anticquitas e
   (1) La storia della lingua latina è ancora da scrivere, quantunque uomini eruditissimi ne abbiano già divise le parti e delineati i contorni. Resta da fare il quadro. E principe tra quegli eruditi indagatori è Fed. Ritschl il quale. per tacer d' altri luoghi, nella prefazione ai Monumenti epigrafici della Prisca latinità, dopo detto ctie i fonti principali della latinità prisca e della plebea sono le iscrizioni, distingue la storia del latino dalle origini ad Augusto nelle seguenti età:
   1. Età anteriore a Livio Andronico, che termina col quinto secolo.
   2. Età liviana che va da Annibale a Q. Ennio attraversando la seconda guerra punica.
   3. Età enniana che si stende oltre la distruzione di Cartagine.
   4. Elèi azziana che dai Gracchi, per i tempi di Mario va fino alla guerra Marsica. È l'età della contesa fra Azzio e Lucilio, (piando composto il dissidio tra la pronunzia e la scrittura la lingua latina si estende per tutta la conquistata Italia.
   t». Vurbanità, che è il periodo della lingua già saldamente composta sì in grazia degli scrittori, e sì della coltura che si vien estendendo a tutte le classi della cittadinanza. È quell'età nella quale, al dire di Cicerone, ogni cittadino libero doveva parlare con eleganza il latino. In questa età egli divide nuovamente tre periodi, che denomina da Siila, da Cesare e Pompeo, stendendo il terzo dalia morte di Cesare alta battaglia di Azzio.
   Nessuno vorrà dire che questa distribuzione non sia giusta, e non bene distinti i momenti principali della storia del latino dalle origini al suo massimo splendore, eh' è nell'età di Cicerone e di Augusto. Ma le difficoltà incominciano quando si voglia dar corpo alla figura che qui si ha appena leggermente abbozzata, quando, per uscir di metafora, si vogliano di secolo in secolo descrivere e classificare le forme e tutti i fenomeni della lingua. Nè a questa bisogna vennero meno od il lavoro dei dotti o la bontà dei metodi adoperati, sì bene i monumenti e le prove, che in grazia dell' antichità sono scar .i o non sineer Però le cose stesse che noi siam venuti sponendo attestano che le fatiche fin qui spese intorno all'arduo quesito non furono indarno, e fanno luminosa testimonianza all' efficacia dei mezzi di cui si valsero insieme linguisti e filologi per risolverlo. E per tornare a Fed. Ritschl, dal quale ab-dam preso le mosse, gli resterà sempre il merito d'aver posto nella sua