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Storia della Letteratura Romana

Cesare Tamagni
Francesco Vallardi Milano, 1874, pagine 590

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a cura di Federico Adamoli

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   libro I'rimo.
   delle quali si può dire esterna, e s'attiene al campo o dominio di ciascheduna, l'altra è tutta interiore e concerne il carattere, o vogliam dire le forme e le leggi che le governano.
   Rispetto alla prima differenza noi vedemmo la lingua illustre guadagnar terreno ogni giorno, e come già si disse, dall' angusto circolo di una compagnia di poeti e letterati divenire gradatamente la favella dei gentiluomini e delle matrone. Molte forme popolari, e più ancora molte licenze della volgare pronunzia, furono tollerate nelle comedie, massime in quelle che più dovevano accostarsi agli usi ed al linguaggio delle plebi ; ma rifiutate dagli altri poeti esse scompajono a poco a poco eziandio dalle iscrizioni, che sono pure i più antichi e più diuturni documenti della loro esistenza. Però quanto un tale progresso è per sè medesimo evidente, tanto è difficile, per non dire impossibile, distinguerne con precisione i momeuti, misurarne i gradi ad uno ad uno. Sono fatti che sfuggono spesse volte all' indagine più acuta, e qui per giunta non ci soccorre sempre nè la copia, nè la fedeltà delle testimonianze. E per spiegarmi con un esempio, una diversità di scrittura o di lingua .11 un medesimo tempo può essere ugualmente una varietà od una incertezza della lìngua urbana stessa, come una differenza tra essa e il dialetto plebeo può tanto significare una forma che comincia a diventar rustica, quanto una che tale già sia da alcun tempo.
   Come nascesse l'altra differenza fu spiegato nel capitolo antecedente (1) ; va poi da sè che essa crescesse via via col naturale progresso della lingua. La quale però, come scritta eh' ella era, non si mosse e non avanzò al modo istesso e colla stessa celerità d'una lingua parlata, essendole, come già fu detto, ostacolo e guida nel medesimo tempo la scrittura. Quantunque giovi eziandio avvertire che .1 dominio della scrittura sulla lingua, comechè notevole, non poteva ancora essere tanto 0 si esteso com' è oggidi quello della stampa. E se consideriamo per giunta che nella età della quale parliamo la scrittura era ancora sul formarsi, sul prender legge dai maestri che la venivano rassettando, capiremo facilmente come le maggiori e più gravi variazioni della lingua scritta cadano appunto nel giro di questi due secoli. Di che natura furono? e come mutaron esse il carattere della lingua? Noi ne abbìam visto gran parte in questo e nel capitolo precedente, e possiamo in poche parole riassumerne i. tratti principali, che sono questi:
   1.° Per opera dei poeti e coll'ajuto della metrica e della ortografia furono misurate con maggior precisione le sillabe, e distinte le lunghe dalle brevi: furono in conseguenza segnati più angusti limiti alla sinizesi ed alla sinalefe, e parecchie consonanti finali che eran cadute 0 stavano per cadere, furon rese all' antico loro ufficio di significare i casi de' nomi 0 le persone de' verbi. S tornò, sebbene non sempre, ad indicare il nominativo, M l'accusativo, e T la terza singolare e plurale del verbo.
   2.° Per il naturale procedimento della lingua cadde il D (2) finale dell'ablativo
   singolare, Y~a finale del nom. sing. della l.a declinazione s'accorciò, il dittongo ai, così nella frescone come nelle sillabe radicali si mutò in ae, rendendo gradatamente al-
   (1) Nella trasformazione del prisco latino in latino classico e plebeo, della quale si è parlato a pag. B8 e seg., lo Schucliardt distingue rispetto alle alterazioni fonetiche de'singoli vocaboli cinque casi possibili, e sono: 1. Che la forma prisca duri eguale nelle due lingue derivate: es. pater. 2. Che dessa si conservi nel Ialino volgare per mutarsi nel classico: es. merelo = mereto volgare è merito negli scrittori. 3. Che si conservi nel Ialino classico e si muti nel plebeo: annonam — annonam classico è nel plebeo annona colla perdila della m dell'accusativo. 4. Che si muti ugualmente in entrambi : es. losna in luna, che è così del dialetto volgare, come della lingua illustre. K. Che si muli diversamente nell'uno e nell'altra: es. maxuma che si fa nel volgare maxoma, nel classico con Cesare maxima. (Vedi ancora i miei Studi latini sul Politecnico. 1868.)
   (2) Vedi pag. 61 e la nota qui appresso.