Stai consultando: 'Storia della Letteratura Romana ', Cesare Tamagni

   

Pagina (141/608)       Pagina_Precedente Pagina_Successiva Indice Copertina      Pagina


Pagina (141/608)       Pagina_Precedente Pagina_Successiva Indice Copertina




Storia della Letteratura Romana

Cesare Tamagni
Francesco Vallardi Milano, 1874, pagine 590

Digitalizzazione OCR e Pubblicazione
a cura di Federico Adamoli

Aderisci al progetto!

   
[Progetto OCR]




[ Testo della pagina elaborato con OCR ]

   capitolo iii. —- seconda età'.
   125
   e dilettarsene, e perchè finalmente nel primo secolo dopo Cristo molti già più non sapessero se Plauto, Terenzio e gli altri comici avessero scritto in versi o non veramente in prosa (1). E come in altro luogo si disse, e si dimostrò con esempiì, i versi di Terenzio e di Plauto oggi ancora ci mostrano chiari segni delle molte audacissime licenze della pronunzia volgare.
   Alle quali si prestavano sino ad una certa misura i giambi, trochei, gli anapesti e gli altri metri da loro adoperati, tollerando che la sillaba lunga dell' arsi si sciogliesse in due ed anche in più sillabe brevi, e che il posto della sillaba breve delia tesi fosse preso da una sillaba lunga : la quale potesse alla sua volta scomporsi in due sillabe brevi. Onde era possibile per es. il caso d'avere un senario giambico tutto fatto di falsi dattili e d'anapesti (2). Ma queste licenze, taluna delle quali passò persino nella poesia lirica dell'età di Augusto, non erano possibili nell'esametro dattilico, col quale Ennio scrisse per il primo un lungo poema, e potè stabilire nella
   (il Cicerone nell1 Orator (55. 184) dice: Cr>micorum sanarti propter similitudinem sermonis sic saepe sunt abjecti,ut nonnnnquam vi.r in eis numerus et versus intelleyi possit. E di Orazio è notissima l'invettiva contro i passati ed i viventi lodatori di Plauto nell'Arte poetica (270-74) :
   At vestri proavi Plautinos et numeros et Laudavere sales, nimium patienter utrumque, Ne dicam stulle, mirati, si modo ego et vos Sciinus inurbanum lepido seponere dicto, Legitimumquc sonum digitis callemus et aure.
   Quintiliano nel libro II dell'Istituzione (10,15) dopo aver detto che la declamazione, come imagiue dei pensamenti e degli affetti nostri, debb'essere naturale, ma non senza un qualche splendore, propone ad esempio gli attori comici « deelainalio, quoniam est judiciorum consiliorumque imago siniilis esse debet veritati: quoniain autem aliquid in se habet iniàìr/.Tiy.óv, nonnihil sibi nitoris adsumere. Quod faciunt actores comici, qui neque ita prorsus, ut nos vulgo loquimur pronunliant, quod esset sine arte, neque procul tamen a natura recedunt, quo vitto perirei imitatio, sed more'tn communis Iiujus sermoìiis decoro quodam scenico exormnt. E Mario Vittorino : Comici cium cotidianum ser-monem imitari nituntur, metra vitiant studio, non imperitia, quod frequentius apud nosiros quam Graccos invenimus ».
   Per ultimo Terenziano Mauro ^Vedi Prisc. De metris comicorum negli Scrìptores lutini rei me-tricue di J. Gaisford. p. 412):
   . . . Qui pedestres fabulas socco premunt, Ut quae loquuntur sumpta de yita pulus, Vitiant jambum tractibus spondaicis, Et in secundo, et caeleris aeque locis. Fidemque fictis cium proturani fabulis, In metra peccant arte, non inscitia, Ile sint sonora verba consueiudinis, Paullumque rursus a solutis differant. Mugis ista nostri. Nam fere Graecis tenax Cura est jambis, vel novellis comicis, Vel qui in vetusta praecluent comcsdia.
   E la ragione di questa differenza tra i comici latini ed i greci è da cercare nella diversa indole dei due volgari, l'ateniese ed il romano, che que' poeti mettevano in versi.
   (2) Le varietà che potevano perciò avvenire nel senario giambico, ci son date dal seguente specchietto :