CAPITOLO III. —- SECONDA ETÀ'.
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I commedianti erano per lo più schifivi o liberti stati ammaestrati nell' arte ; che i padroni tenevano per proprio divertimento, o affittavano ad altri. Essi erano, come fu già detto, infami, e Siila fu il primo che osasse mostrarsi in publico circondato da istrioni. Pure taluni, come Roscio ed Esopo, vennero in si alta fama da procacciarsi la stima e l'amicizia de'più illustri cittadini, e dopo il duro esempio di Laborio si videro altri cavalieri costretti dai Cesari a calcare le scene Così a poco a poco le opinioni dei Romani intorno alla dignità dell'arte istrionale si vennero mitigando, senza che giungessero però mai a mutare la prescrizione delle leggi. Furono addolcite le pene, limitando al tempo dello spettacolo il diritto che aveano i magistrati di farli battere, e sotto l'impero vediamo fin anche degli istrioni coprire cariche municipali. Ma la legge che li dichiarava infami, e che faceva una colpa all' onorato cittadino di frequentarli non fu mai tolta. Anche nella maggior corruzione ,' antico sentimento della dignità cittadina non fu spento del tutto ; e voleva poter sorgere tratto tratto contro l'onda impetuosa delle forestiere usanze col vigor delle leggi, il quale durava pur sempre anche quando esse parevano più dimenticate ed impotenti.
Fra gli istrioni forse già dai tempi di Plauto, certo dalla prima metà del secolo settimo vi fu gara a chi ottenesse i maggiori applausi del publico. Premi del vincitore erano palme, corone d'oro, e consimili donativi: sotto l'impero anche vesti preziose e denaro. Questa gara divideva il publico in fazioni, che troviamo forti e vivaci già nel principio del settimo secolo, e che trascorrevano bene spesso a gravi licenze, dagli imperatori tollerate volontieri e talvolta eziandio promosse. D'una gara dei poeti è pure un debole cenno nella storia già al tempo di Plauto ; ma si debole da non potersene cavare altra conclusione fuor questa : che se gara vi fu, non dovette per nulla somigliare a quella per cui nelle feste ateniesi si contendevano il premio i maggiori poeti delia Grecia. E le ragioni, dopo quanto è stato detto, devono apparire ad ognuno così chiare, che non metta conto di ripeterle.
§ 13. — Progressi della letteratura e della lingua.
Sotto questa duplice azione delle scuole e del teatro noi vediamo nei giro di circa censessant' anni nascere e fiorire pressoché tutti i rami di una doviziosissima letteratura. Ed in verità la poesia epica da Ennio e la satira da Lucilio furono recate ad una altezza, che fu potuta oltrepassare solamente da Virgilio e da Orazio, e la poesia dramatica lasciò con Plauto e Terenzio degli esemplari che non vennero superati. Solo la lirica, per ragioni che ci sarà facile di vedere a suo luogo, non ebbe, si può dire, cultori in questo secolo ; e i Romani dovettero attendere Catullo ed Orazio per udire l'eco di que' suoni, che in Grecia aveano mitigato l'acerbo dolore di Saffo o celebrate le gesta de' cento eroi ne' giuochi olimpici. Né meno prospere sorti della poesia, che era puro un arte di mero diletto, ebbe ne'suoi varii generi la prosa ; dove al diletto si congiunse sempre l'utilità, giacché la fama aquistata cogli scritti o colla parola conduceva bene spesso ai lucrosi onori della repubblica. È questo anzi un fatto il quale nella storia delle lettere romane segnò sin dal principio come una linea di divisione tra prosatori e poeti: quelli uomini di stato quasi sempre, e che dall' esperienza degli affari prendevano occasiono e modo di farsi eccellenti nelle lettere, oppure da esse imparavano come altri ottenga nome e fortuna ne' publici negozii; questi per lo più nati di basso luogo, ed anche ne'pili bei tempi della libertà costretti di servire ai potenti, di cui compravano la protezione rallegrandone gli ozii od illustrandone il casato coi loro carmi. Quindi il gran numero d illustri patrizii e di chiarissimi magistrati, che in questi due secoli presero lo stile per scrivere gli Annali della loro patria; e la schiera sempre crescente de' giureconsulti e degli oratori, in mezzo ai quali risplendono nomi tanto cari e gloriosi come son quelli di Catone, di L. Calpurnio Pisone Frugi, di P. Rutilio Rufo, di Q. Lutazio Catulo, de'Gracchi, di Licinio Crasso, di Cajo Antonio, degli Scevola e d'altri che sarebbe troppo lungo enumerare. Se non che, se il fatto di una tanta fecondità Tamagni. Letteratura Romano 15