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Storia della Letteratura Romana

Cesare Tamagni
Francesco Vallardi Milano, 1874, pagine 590

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a cura di Federico Adamoli

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   capitolo iii. — seconda età'. 107
   clie tanti prodigi d'arte e d'ingegno si fossero fatti per recare nuova esca alla corruzione de' costumi, che per es. i romani figli di famiglia, ridendo della prodigalità di Lesbouico o delle amorose astuzie di Panfilo, apprendessero come si dissipino le sostanze e s'inganni la prudente vigilanza de' padri, e che tutte insieme le età e gli ordini della cittadinanza, mentre cercavano un fuggevole divertimento da cure più gravi nello spettacolo delle ridicolezze e de' vizi d'una nazione soggiogata, si avvezzassero gradatamente ad imitarli : fin qui, dico, saremmo nel vero, non già se a questi cattivi esempii attribuissimo troppa più parte che non ebbero nell'ammollire e corrompere la sana e robusta tempra del carattere romano. Ogni cosa nell istoria wiatie pur troppo a suo tempo, tanto il bene quanto il male : e senz'essere fatalisti si può affermare che nessuna novità sorge o s'introduce presso una nazione che gii animi 11011 vi sieno disposti a riceverla. Solo i frutti maturi son presti a marcire : ed a Roma la maturità de' vizii era stata di lunga mano preparata dagli eccessi medesimi delle contrarie virtù. Noi non ci uniremo dunque con coloro che tutti i mali e le colpe di Roma addossano all'arte ed alla civiltà greca ; diremo soltanto che se essa vi portò una larga semente, il campo era da gran pezza ben disposto a riceverla e farla feconda.
   Togato in largo senso dicevasi ogni drama originale romano dalla toga (fosse poi pretesta o no) dei personaggi. In senso stretto venne a dire più usualmente la comedia popolare dei Romani, chiamata anche tahernaria ; soggetto della quale erano i costumi dell' iiifima plebe. Essa distinguevasi dalla palliata in più modi : sì per le figure più ruvide forse e più volgari, ma per converso più naturali e sincere, e sì per esservi più largamente descritta la vita di famiglia. Le donne vi hanno quindi una parte assai importante, ed una minore gli schiavi. I primarii scrittori di comedie togate sono Titinio, Quinzio Atta e L. Afranio, tutti viventi nel periodo che corse dal 585 al 675 della città. Essa tieue dunque storicamente il suo posto tra le palliate di Terenzio da un canto, le atellane ed i mimi di Pomponio , Novio, Laberio e Siro dall' altro. La scena delle togate è comunemente Roma; talvolta vien anche trasferita in una città di provincia, sia per deridere i difetti delle piccole città, sia per dipingere l'impressione che la vista di Roma faceva su di un campagnuolo, ossia per altro analogo motivo. Una nolizia assai caratteristica ci fu conservata da Donato, ed è che nella palliata era concesso ai poeti di rappresentare de'servi più saggi de'loro padroni, nella togata punto, o quasi. Il Romano anche tra le risa plebee voleva ricordarsi d'essere padrone.
   Anche la rìntonica, così detta dal Fliacografo Rintone di Taranto, trovò buona accoglienza ed ospitalità in Roma, ma senza lasciare tracce visibili nella letteratura. Essa era una parodia di soggetti tragici e chiamavasi anche llxpczpo.yyùla ed 'Mihv-Y] ad indicare che era nata nel nostro suolo.
   Secondo il racconto di Livio, dal quale prendemmo le mosse, e secondo ciò che noi stessi siamo venuti esponendo, il drama romano nacque adunque dalla riunione dell'antico dialogo improvviso, interrotto da canzoni, colla muta pantomima etnisca, cui Livio Andronico aggiunse pel primo la favola nell'anno 514. Di qui trae origine la divisione di esso, che si mantenne poi sempre, in tre parti, le quali sono:
   1. Il dialogo (diverbium) ;
   2. La pantomima ;
   3. La cantata (canticum) con accompagnamento di flauto (ad tibicinem).
   11 dialogo non era cantato, sì bene recitato, ed è solamente verisimile che le variazioni nel ritmo e nel tempo fossero indicate agli attori dai monitores, forse col suono del flauto. Usanza la quale, quando fosse vera, concorderebbe con quello che Quintiliano ci racconta di C. Gracco, die quando usciva ni publico a parlare era sempre seguito da un musico, il quale col suono di una specie di flauto detto revàpiov gli indicava ogni volta le più acute modulazioni della voce.
   Nella cantata invece, o monologo di genere lirico, la recitazione si mutava in vero canto, il gesto in danza Ma sì quello sì questa non erano, come abbiam visto