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Storia della Letteratura Romana

Cesare Tamagni
Francesco Vallardi Milano, 1874, pagine 590

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a cura di Federico Adamoli

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   CAPITOLO III. —- SECONDA ETÀ'.
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   crazia romana che dava volentieri in pascolo alli scherni dei publico i vizi e le ridicolezze della moltitudine o degli stranieri, mostrò con duri esempi come sapesse castigare la satira che osasse spingere fino a lei i pungenti suoi strali Quindi il nativo drama romano non uscì da' lazzi e dalla descrizione de' caratteri e de'co-stumi plebei: come poi scarsa era la coltura in tutte le classi e rozza la lingua, così non è da fare le meraviglie, se per cagione d'apprendere quella e di condur questa a forma migliore ì Romani facessero buon viso ai primi saggi del drama greco, e tosto si cacciassero di buona lena nella via d'imitarlo. Accadde, lo ripeto, ai Romani un po' quel medesimo che a noi : i quali avemmo un teatro classico copiato dalli antichi e insieme con esso la commedia dell'arte, che parlando uno appresso dell'altro i più cospicui dialetti d'Italia, vive ora gli ultimi anni della antichissima sua vita passando di città in città e di piazza in piazza nelle mobili tende de'burattili
   Farebbe però contro la verità storica e contro la giustizia, che vuol essere resa agli scrittori romani, chi dicesse non aver essi saputo far alcun uso de'buoni elementi nativi, ed essere camminati ciecamente sull'orme de' Greci. Ciò non è più vero nella dramatica che in qualsiasi altro genere di letteratura ; e se il t eat.ro fu ai Romani un'occasione ed un mezzo efficacissimo di appropriarsi la dottrina e l'arte greca, giova anche dire che di questa si servirono per crearsi un'arte propria, la quale, senza essere tutt' affatto originale, manifestò però a molti e chiari segni la potenza delle idee e dei sentimenti nazionali. Perocché, come già s' è detto, oltre d'aver accolto ed acconciato alle loro scene il drama greco, si valsero dell'esempio per ridurre a forma artistica i mimi e le atellane, e sul tipo della tragedia e della commedia palliata composero la praetexta e le varie specie di commedia togata, che presentavano agli occhi del publico azioni, persone e fogge solamente romane.
   Il teatro tragico fu il meno fortunato, e dovette per lo più contentarsi di opere tolte od imitate dal greco. Non che nella storia, negli istituii e nell'indole della nazione non vi fossero elementi da cavarne, pur seguendo l'istradamento de'Greci, una tragedia romana: perocché nessun popolo avea più del romano compiute azioni gloriosissime in pace ed in guerra, o poteva vantare più grande e più splendida corona di grandi uomini; ma è da avvertire in primo luogo che quelle e questi (essendo mancata ai Romani una vera mitologia eroica) erano già troppo veri e vicini, troppo storici per offrire, a dirla con Alfieri, soggetti e personaggi tragediabili, e poi che i Romani non ebbero nè la profondità d'idee religiose, nè l'alta fantasia, nò quel si vivace senso poetico, che furono principio e cagione al fiorire della tragedia greca. Roma non ebbe nessun tragico che valesse fischilo o Sofocle, anche perchè non aveva prima avuto nè un'Iliade, nè un'Odissea: e perchè, giova dirlo, la colta generazione del sesto e settimo secolo, se poteva nel suo filosofico scetticismo tollerare che fossero messi in ridicolo gli Dei, serbava ancora tanto dell'antico decoro per non soffrire pili che di mala voglia sulla scena la vista de'suoi grandi avi camuffati da istrioni. Non si dimentichi essere stato per i Romani il teatro nulla più che un aggradevole trattenimento, e i commedianti una gente vilissima ed infame; e si troverà la ragione intima delle maggiori differenze che in questa parte dividono la letteratura romana dalia greca.
   Però tragedie non mancarono, come vedremo, e le traduzioiu dal greco rozze ancora ed impacciate in Livio Andronico si vengono facendo via via più libere e disinvolte in Nevio, Ennio, Pacuvio ed Azzio. L'arte della composizione si migliora col tempo, e insieme con essa la lingua e lo stile: solcliè la gravità de'pensieri e delle espressioni vi degenera talora in gonfiezza, talora invece va perduta in seusi e dizioni triviali, e il verso è troppo spesso lento e pesante. Colpa del secolo assai più che degli scrittori, come fu sentenziato anche da Quintiliano, giudice non indulgente di questi antichi poeti. « Tragediae scriptores veterum Attius alque Paciwius clarissimi gravitate sententiarum, verborim pondere, auctoritate personarum. Ce-terum nilor el stimma in excolendis operibus manus magis videri potest temporibus quam ipsis deflusso ». (Inst. Or. X. I. 97).
   La fa,buia praetexta fu il solo e non guari felice tentativo di una tragedia na-
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