124
LIBRO I'RIMO.
monte il saturnio: e la lingua di tutta la comedia il dialetto plebeo. Gli attori erano mascherati, e come non partecipavano alla infamia degli istrioni, non poteano essere costretti a cavarsi la maschera sulla scena, ciò che quelli dovevano fare. E quando i censori nell'anno 039 bandirono da Roma l'arte comica (artem ludicram), eccettuarono la commedia atellana (ludum atellanum). Essa era dunque propriamente uu' arte ed uno spettacolo nazionale.
Ai tempi di Siila Pomponio e Novio tolte le atellane dalla scena popolare ne fecero un ramo dell'arte dramatica, il quale quind'innanzi si distinse dalli altri generi di comedia, per ciò solo che era più burlesco e più vicino ai caratteri ed ai costumi del popolo. E così continuò anche nei primi anni dell' impero, lìnchè i tempi lo costrinsero ad ammutolire e cedere il passo allo pantomime (1).
Più volgari delle satire e delle atellane, e però non assunti all'onore d' essere rappresentati da cittadini romani, furono i mimi, lasciva imitazione di discorsi o d'atti laidi e scurrili. Essi erano di due specie: altri privati, che s'adoperavano a rallegrare i banchetti e le feste domestiche, ed altri publici, che venivano rappresentati sui teatri. Dalla volgarità del soggetto e dall'umile condizione degli attori, che entravano in iscena scalzi, furono latinamente detti anche planipedes. Si vede ch'essi erano l'infimo e più abbietto genere della commedia popolare. Come le satire e le atellane — alle quali cedettero via via il posto — facevano anch' essi seguito nella recita al draina serio, linchè a' tempi di Cicerone per opera di Laberio, di C. Mazio e di Pubblio Siro diventarono alla loro volta un ramo di letteratura dramatica, che salì poi anche solo la scena, e fu negli ultimi anni della republica e più sotto l'impero ricercato ed applaudito dalla plebe e da'principi con uguale favore. L'ufficio proprio de'mimi, come suona il nome, era di ritrarre i caratteri, e contraffacendoli cavarne inesauribile sorgente di ridicolo. Perciò la mimica doveva averci più gran parte che non nelle atellane: e dopo la qualità de'personaggi e degli attori fu questa forse tra i due generi di commedia la maggiore differenza. I mimi vestivano un abito variopinto (centunculus) e, come già si è dotto, camminavano a piedi nudi: le donne, che vi facevano sempre la parte più gradita, e che più destava le risa degli spettatori colla qualità di cameriere, portavano un cortissimo mantello (recinium, ricinium), che lasciava nuda gran parte della persona. Maschere no, perchè la mimica stessa non le comportava. La lingua, a più forte ragione che quella delle satire e delle atellane, dovette essere plebea; le danze e i canti erano come d'uso accompagnati dal suono dei flauto. Che stima ì Romani facessero de'mimi si raccoglie da un luogo di Yopisco, dove l'imperatore Carino è accusato d'aver empito il palazzo di mimi, meretrici, pantomimi, cantanti e ruffiani. Erano, a giudizio del publico, la più ribalda gente della città.
Colle satire, coi mimi e colle atellane comincia e finisce la commedia popolare e veramente nazionale de'Romani: quella, vogliain dire, che già esisteva innanzi che essi conoscessero il draina greco. Perchè l'umore giocondo e l'acre spirito de'padri nostri non potesse creare una commedia che passasse ai posteri rivale della greca, fu già detto ili parte altre volte e verrà a suo luogo comodamente dimostrato: qui mi cade in acconcio ricordare di passaggio la severità delle pene, che vietando l'oltraggio al nome de'potenti poneva alla libertà dello scrittore un limite che lo costringeva a tenersi ne'più bassi gradi della società, pungendo col motteggio 'od esponendo colia caricatura alle risa della plebe tali tipi d'uomini e d donno da'quali nulla avesse da temere. Così il drama non potè mai in Roma essere politico, non potè quindi dare un teatro che pur di lontano arieggiasse quello d'Aristofane. L'aristo-
tunque coperte (la splendida vernice rimanevano tuttavia le traccio dell' antica rozzezza, che tutta l'arte greca non potè mai cancellare.
in longiim tamen aevum Manscrtint hodieque manent vestigia ruris.
(I) TeufTel, Geschichte dcr ròmisehen literatur. p. 14