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Storia della Letteratura Romana

Cesare Tamagni
Francesco Vallardi Milano, 1874, pagine 590

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a cura di Federico Adamoli

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   CAPITOLO III. —- SECONDA ETÀ'.
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   popolare cedere il posto alla comedia osca, essa non continuò meno il suo ufficio per altra Aria, e l'aceto italico si versò in larga copia nelle satire di Lucilio, di Orazio e di Giovenale. Se i personaggi di Macco, Pappo, Bucco o Dosseno, che dovevano risorgere in Arlecchino, Pantalone, Brighella, e il Dottore, rimasero fìssi nell' atei-lana, non mancarono alla satira altri tipi, che quantunque non abbiano potuto discendere nella memoria e nella tradizione popolare (perchè la satira didattica popolare in Roma non fu mai, e perchè a rendere tipico un personaggio vale assai più che la satira il teatro, per quella ragion d'Orazio che: Segnius irritant animos demism per aurem, quam quae sunt oeulis suì)jeeta fidelibus...) dicono pur chiaramente d'essere dello stesso sangue de'loro più fortunati compagni. E lo vedremo a suo tempo.
   Prima le satire, e dopo che furono introdotte in Roma, anche le atellane ne' ludi scenici facevano seguito di solito al drama palliato, di cui la plebe degli spettatori non si compiaceva gran fatto, press' a poco come noi per rallegrare il publico facciamo alle tragedie seguire le farse. Da tale usanza presero insieme il nome di exodia, e così va inteso il passo di Livio, il quale nasconde od una illusione dell' autore, od una menda del testo (1). In quale anno precisamente le atellane fossero recate a Roma, non possiamo dire; è però ragionevole pensare che ciò accadesse dopo che la Campania era stata soggettata e latinizzata (543). Quando la gioventù romana disdegnando di uguagliarsi ai vilissimi commedianti ebbe deliberato di far ritorno alle native facezie, ella vide il profìtto che poteva a quest'uopo ricavare dalle atellane; dalle quali bastava prendere i personaggi e farli parlar latino per avere l'uguale della commedia osca. Perocché non sia da credere a Stra-bone che le atellane, quali si recitavano in Roma, fossero scritte in osco; non essendo i Romani nell'universale pratici gran fatto di quella lingua (2). Ennio perchè sapeva tre lingue, la greca, la romana e l'osca diceva d' aver tre cuori. Le atellane latine sono dunque assai verisimilmente una imitazione popolare delle commedie originali; diverse nella favella di tanto, di quanto l'osco s'allontanava dal latino; più simili ne'personaggi, nell'ordito e ne'sali, perchè erano il portato d'uomini e di costumi naturalmente affini. Dunque come le satire procedendo dalla licenza fescen-nina l'avanzavano per aver prima calcato la scena del teatro, così le atellane oltrepassano le satire per la qualità de' personaggi, e per una più acconcia composizione della favola. La quale, come nella nostra commedia dell'arte, conteneva poco più che la materia ed i primi fili dell' azione ; tesserla e condirla di lazzi e motteggi che più piacessero al genio degli spettatori era lasciato al talento ed alla vena comica de'personaggi. E di che genere questa fosse e quanto copiosa, forse può vederlo anche oggi chi assista ad una rappresentazione di Pulcinella al S. Carlino di Napoli (3). Il metro delle canzoni che qua e là s'intercalavano al dialogo era natural-
   (4) Esodio por sè vale uscita; e significava il lieto esito di uno spettacolo serio, che si otteneva col fargli succedere un' azione giocosa. « Exodiarim, scrive Io scoliaste di Giovenale (III. 17KÌ, apud veteres in fine ludorum intrabat, quia ridieulus foret, ut quidqukl laerimarum atque. tristitiae conlegissent ex tragicis afjectibus hujus spectaeuli visus detergerei». Dopo caduta in disuso la satira, servirono a quest'uopo i mimi, ma più le Atellane, onde Vexodium Atellanieum (Suct. Tib. 4E») > exodium Jtellanae (Iuv. VI. 71): e Livio, se il passo non è guasto, potè dalla somiglianza del genere e dell'ufficio essere stato tratto in errore, e credere che gli csodii venissero inseriti nelle atellane.
   (2) Stl'ab. V. 3. 6: tmv 'Oa/wu isxJÉXoi/to'tSv ri oiz'Xr/.ToS (jAvsi t:olo% toi? Pm^kigiS, mtte zzi iroir,y.a.TX cry.r,vo3y.Tsia3'xi y.c/.tv. riva, xytovx Tr'/rpiov y.xì [/.i^oloyilaS'xi Che l'osco non fosse capito in Roma, oltre che da Livio (X. 20. 8.) è attestato da altri scrittori. Torse la lingua plebea di quelle commedie può a Strabene essere parsa così strana da crederlo un dialetto forestiero, e proprio di quel popolo da cui esse avevano preso il nome.
   (3) Ed un saggio in pieno secolo ottavo ci fu serbato da Orazio nella satira summentovata. A leggerlo ognun vede di che grossolane facezie, e di che laide allusioni si dilettassero ancora in tanta luce di civiltà e con tanto fior d'ingegno e di coltura gli uomini più illustri di quel tempo. Quan-