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Storia della Letteratura Romana

Cesare Tamagni
Francesco Vallardi Milano, 1874, pagine 590

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a cura di Federico Adamoli

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   CAPITOLO III. —- SECONDA ETÀ'.
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   legge, perchè già diveniva crudele e pericolosa licenza. Però i fescennini, se contenevano in germe le condizioni della commedia, vera commedia non furono mai; ed in età più tarda il loro nome non suona quasi altrimenti che giocose canzoni di nozze (1). La paura del bastone li voltò, come dice Orazio, dall'acre contumelia allo scherzo benigno e dilettevole. Essi non videro mai il teatro, il quale doveva invece essere occupato da tre altre specie di componimenti nati da una medesima origine e segnati d'uguale carattere, vogliamo dire: le satire, i mimi e le ateliane. Ma anch'essi non prima che quattro secoli all'incirca fossero corsi dalla fondazione della città ; chè solo nel 300 Roma vide la prima volta tra le sue mura i ludi scenici. Fin là era rimasta paga ai cruenti spettacoli del Circo.
   li memorabile avvenimento ci è narrato da Livio nei secondo capitolo del settimo libro delle istorie. «In questo, die'egli, e nei seguente anno ci fu pestilenza. E siccome la violenza del morbo nò per umani accorgimenti nè per divino ajuto si raddolciva, vinti gii animi dalla superstizione, si dice che tra gli altri modi di placare l'ira celeste fossero istituiti i ludi scenici, cosa nuova per un popolo bellicoso. Però la fu, come tutti i principii, una piccola cosa ed in sè affatto forestiera. Senza alcun carme, senza quegli atteggiamenti che lo imitano, de'giocolalori, gente chiamata dal-l'Etruria, saltando a suon di flauto facevano de' moti non isconci al modo toscano. Quindi i nostri giovani cominciarono ad imitarli, con rozzi versi mandandosi a gara motti e facezie: e i movimenti s'accordavano colle parole. La cosa piacque e coll'uso andò più oltre. Agli artisti nostrali, perchè in toscano ludius dicevasi ister, fu posto nome istrioni; i quali non già come dapprincipio dicevano alternativamente ed all' improvviso versi rozzi ed ìncomposti simili a' fescennini, ma eseguivano satire con ritmi e canto già modulato a suon di flauto, e movimenti conformi. Dopo alcuni anni Livio fu il primo che dalle satire progredendo osasse inserire, nell'argomento di esse una favola, ed essendo anch' egli, come tutti allora, autore insieme ed attore de' suoi versi, si narra che chiamato più volte a ripetere gli si ottuse la voce, onde chiesta licenza pose un ragazzo a cantare davanti al flautista, ed eseguì il cantico con moto più vigoroso perchè l'uso della voce non lo impediva. Di qui l'usanza che altri cantasse le cantiche, mentre 1' istrione ne esprimeva coi gesti i sentimenti (ad manum cantare); e che questi recitasse solamente il dialogo. Ma dacché a questo modo il teatro si veniva allontanando dal riso e dall'incondito scherzo, e il gioco di prima s'era mano mano mutato in arte, la nostra gioventù, lasciata agli istrioni la rappresentazione delle commedie, tornò all'antico suo costume di improvvisare facezie in versi, che poi furono detti esodii e inseriti principalmente nelle favole atellane, genere di giochi che la gioventù ricevette dagli Osclii e non permise che fosse contaminato dagli istrioni: onde rimane oggi ancora prescritto che gli attori delle atellane non siano mossi dalla tribù, e possano militare come non partecipanti all'arte dell'istrione1».
   Questo racconto, se ne togliamo l'inesattezza, facile da spiegarsi, circa gli esodii e le atellane, contiene la più breve ed insieme la più chiara e precisa dimostrazione dell' origine de' ludi scenici romani. Un senso di religioso terrore avendo chiamato a Roma gli istrioni toscani, noi vediamo la gioventù poco impensierita della peste che affliggeva la città assistere con curiosa meraviglia a quelle danze, che per il loro scopo come per l'occasione nella quale si facevano, dovevano somigliare ben più ad un irto religioso che non ad uno spettacolo, e quindi aver assai più di gravità e di magnificenza che non di grazia o di leggiadrìa, e volgendo in riso ciò che nelle condizioni della patria doveva essere cagione di mestizia, contraffarle, pur mescolando ai salti ed alle gesticolazioni i consueti motteggi. Ritornava sott' altre forme la licenza fescennina, ma per diventare via via un gioco del quale tutte le parti fossero con arte descritte ed ordinate. Il gioco cittadino già libero e capriccioso diventò un mestiere, e Roma aveva già i suoi istrioni, le sue scene, e tutto
   (1) Corssen, Origines poesis romanae, pag. 150.