CAPITOLO III. —- SECONDA ETÀ'. 97
vano piena ragione. Quindi nè ci dorremo nè faremo le maraviglie se in quella stessa guisa che abbiam veduto i grammatici insegnar retorica, sentiremo anche di non poter sempre distinguere nettamente in questa storia delle scuole latine i maestri e gli insegnamenti di retorica da quelli di filosofia.
La quale però era venuta a Roma assai più presto, e non dalla Grecia ma dall'Italia, nell'estremo lembo della quale ed in Sicilia fiorivano da tempo antichissimo parecchie illustri scuole e sette di filosofi. E superiore a tutte la disciplina di Pitagora, vissuto al tempo degli ultimi re, la quale, essendosi largamente sparsa per tutta Italia, non poteva non essere penetrata anche in Roma; chè anzi da nessuna altra origine che dall'ammirazione delle dottrine pitagoriche poteva essere venuta la tradizione, che faceva Numa scolaro del grande filosofo.
E Cicerone crede ancora che i suoi concittadini avessero preso 'dai Pitagorici il costume di rallegrare colla musica le feste civili e religiose, e l'uso clie i fanciulli cantassero ne'banchetti al suono di flauto le lodi de'maggiori; egli vede inoltre un chiaro documento della filosofia pitagorica in Roma in un carme di Appio Claudio Cieco, lodat.issimo da Panezio, e in molte altre 'stituzioni che non nomina, dice egli, per non parere che noi abbiamo imparato dagli altri quelle cose che crediamo d'aver trovato noi medesimi (1). E di questo fatto vuol servirsi Cicerone a provare che lo studio della filosofia, a differenza di altri assai più recenti, è antico .11 Roma, quantunque aggiunga subito dopo che prima dell'età di Lelio e di Scipione non si trova alcun studioso di essa di cui si possa proferire il nome (2). Ma egli arguisce ancora che la filosofìa fosse già studiata in quel tempo dalla venuta in Roma di Cameade, Diogene e Critolao, i quali non sarebbero stati dalla città di Atene tolti dalla quiete delle loro scuole, e mandati ambasciatori al senato della republica, se non si fosse pensato eh' essi potessero trovare in Roma tra i maggiorenti degli uomini amici e studiosi della filosofia (3). Termina però dicendo che ancora in quella età, mentre non mancò chi scrivesse di civile giurisprudenza, o mettesse in carta le proprie orazioni, o raccontasse le gesta dei maggiori, la filosofia, che è di tutte le arti la maggiore e quella che insegna a ben vivere, fu coltivata più colla pratica della vita che cogli scritti (liane disciplinam vita magis quam literis persecuti sunt).
Dunque il primo de'Romani a cui si possa dar nome di filosofo è Quinto Ennio; il quale, oltre d'essere stato gran poeta e filologo ingegnosissimo, si meritò anche il titolo di neologo, per aver collo scritto denominato da Epicarmo (filosofo pitagorico) volgarizzata e resa nota ai Romani una dottrina, la quale insegnava non essere Giove che l'aria stessa, e cosi tutte le divinità nomi e simboli delle forze naturali, e col-l'altro libro detto Evemero dal nome dell' illustre pensatore siciliano, propagata una filosofia non meno perniciosa alla religione, come quella la quale voleva dimostrare che gli Dei della Grecia 11011 avevano esistito mai, e che gli esseri creduti Dei erano meramente degli uomini. La composizione di questi libri Ennio non l'avea fatta a caso; e per quanto la forma ne fosse in que' primordii della lingua arida ancora e disamena, essi non poterono non nuocere anche agli Dei di Roma, e dare un primo crollo alle
(1) «Erat ih,5 paene in conspcctu pracstanti sapicntia et nobilitate Pythagoras, qui fuit in Italia temporibus sdeni, quibus L. Rrutus patriam liberavit. Pytliagorae autem doctrina quum longc la-teque flueret, permanavisse niihi videlur in liane c'vitatem, idque cum conjcctura probabile est, tum quibusdam et rim vestigiis indicatur ». E segue a dire delle congetture e degli indizii per tutto il primo ed il secondo capitolo del libro IV delle Tuscnlane.
(2) Id. Ib. 3. Sapientiae studium vetus id quidem in nosirisi sed tamen ante Laelii aetatem et Scìpionis non reperio, quos appellare possici nominatim.
(5) Qui quum reipublicae nullam unquam pai tem attigissent, essetque eornm alter Cjrcnaeus, alter Babylonms, nunquam profecto scholis essent excitati, neque ad illud mnnus electi, nisi in quibusdam principibus temporibus illis fuissent studia doctrinae. Id. ib. 3. (Intorno al significato che dà pi Cicerone alla parola doctrina vedi Nagelsbach. Lat, Stil. § 2.)
Tamagni. Letteratura Romana. 13