72 LIBRO I'RIMO.
del j sulla dentale giarswn, giusum, e giuso. Il quale vive ancora nelle montagne della Toscana, mentre negli altri dialetti e nella lingua stessa letteraria, perdendo anche l'ultima sillaba, divenne già (1).
3. Che una vocale breve accentata davanti ad una vocale baritona serha intera la sua quantità di voce, e la vocale seguente di lunga, clie per avventura ella sia,
diventa ancipite, come l'ultima sillaba di molti giambi Es. : duas, duo. huic, ecc.
4. Che in parecchi vocaboli latini due vocali si sono confuse insieme producendo un nuovo ed unico suono, per essere caduto un li, un i, od un v, che le divideva. Tali sono: dcbco — dehibeo, praebeo — praehibeo, pracda = praehenda, praedium
= prachendium, rcice = rejice, e i genitivi hiiiiis, quoìus, cujus, eius monosillabi anche in Lucilio ed in Lucrezio, che dovevano suonare come Vota nostro nel notissimo verso
jEcco Cin da Pistoja, Guitton d'Arezzo.
Il scadde in navem, ovis, boves che si trovano monosillabi in Plauto; cosi
come in oblivìsci, avonculus, cavillalor, juvèntutem, ed altre poche voci.
Circa la sinalefe già Cicerone insegnava nell'Oratore (150-152), dovers. evitare studiosamente il concorso delle vocali finali ed iniziali nella pronunzia delle parole vicine. « Nani, dice, ut in legendo oculus, sic animus in dicendo prospiciet quid sequalur, ne extremorum verborum cura insequenlibus primis concursus aut hiul-cas voces cfficiat aut aspcras. . . . Quod quidem lingua latina sic observat, nemo ut tam rusticus sii, qui vocales nolit conjungerc.... nobis, ne si cupiamus quidem, distrahere voces conceditur ». E Federico Ititschl con una diligentissiina analisi del testo Plautino potè dimostrarci che nè la numerazione, nè la punteggiatura, e nemmeno 1 cambiamento di persona nel dialogo, erano motivi sufficient per escludere l'elisione nella recita de'versi di Plauto, che vuoi come dire nella pronunzia volgare. Pertanto nel seguente passo del Trinummo: Si quid vis Stasime. St. huc cóncede aliquantùm Ph. licci, elidevasi Ve di Slasime coli'/me, benché fossero proferiti da persone diverse. Tanto lungi era già proceduta nella elisione delle voci finali colle iniziali, e tanto studio poneva a fondere insieme i vocaboli, la favella di quelle generazioni che vinsero Pirro, Annibale e Filippo.
Ma l'elisione come facevasi, e che suono ne usciva? Nel verso, come ci dice la stessa parola elisione, con cui ì Grammatici latini tradussero la greca voce awaloup/i, la vocale finale era quella che perdeva ogni valore, ma nelle scritture di prosa e nel parlare, le due vocali si pronunziavano insieme formando un nuovo suono, che noi naturalmente non ci possiamo rappresentare qual fosse. Ciò dicono chiaramente Quintiliano e Cicerone (2), e la ortografia ne conferma i detti.
Bel resto ci sarà facile intendere, come le due voci potessero nell'incontro coprirsi e dissimularsi a vicenda, quando ci ricordiamo che in latino le sillabe finali erano tutte senz'accento, ed i monosillabi, tranne pochissimi, enclitici. E vediamo anche come la sinalefe, non meno della sineresi, fosse una propria tendenza del parlare romano, cui gli scrittori, ed in ispecial modo i poeti tentarono con ogni possa di limitare, bene intendendo come per essa venisse a sciogliersi loro nelle mani la materia stessa del verso. Da questo intendimento di porro un freno alla invadente commisi.me e dissimulazione dei suoni, prende origine Fuso degli iati nella poesia. Già i poeti scenici avevano cominciato ad introdurli ed a farli tollerare nella mu-
(1) Lo stesso vale di sursum, susiim, suso, su.
(2) Cicerone e Quintiliano tradussero quiudi assai meglio de1 Grammatici la voce greca, chiamandola conglulinatio, coagmentatio, coitus sillabarum, cocuntus literac. Si vede che una delle vjci si nascondeva nell'altra. Vedi Quinf. IX, 4, '«0, B!>, XI, 5, 34. e Cic. 1. c.