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Storia della Letteratura Romana

Cesare Tamagni
Francesco Vallardi Milano, 1874, pagine 590

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a cura di Federico Adamoli

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   CAPITOLO II. — PRIMA STA'.
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   colo dall'alfabeto latino, vi ritornò solo ai tempi di Cicerone per le parole greche : giacche la Z che troviamo nei manoscritti di Plauto in zona, zacynthus e simili vi fu introdotta da Valerio Probo (Gram. del 1° secolo dopo Cristo), il quale corresse l'ortografia Plautina ad uso del suo tempo. I Romani dell'età di Plauto e di Pacuvio esprimevano la Z iniziale greca con S, scrivendo Saguntum, sona (zona), e la media con doppio SS, per zpp.-xì'clr/ig, scrivendo trapessita, e per rra-^co patrisso. Pur la Z etnisca veniva dai Romani tradotta col doppio SS onde 1' etrusco nome Mezcntius (Mezzentius) scrivevasi anche Messentius.
   XYI1. Cile il suono V (vati — F digamma eolico) era forte come il V italiano in principio di parola (1), ed anche in mezzo, quando però fosse seguito da consonante; se era invece intermedio tra vocali doveva avere un suono più debole, come il v tedesco, il w inglese o la f italiana. Qnindi è che tra vocali cadeva spessissimo (pe-tìvit = petìit, bovum --= boum) traendo con sè assai volte eziandio la vocale seguente, e però facendo da amaverunt amarunt, da aevitas aelas, da divitior ditior. Mentre invece tra vocale e consonante si trasformava più volontieri in u, non solo nella stessa parola, ma pur tra due parole che si succedessero. Così avemmo cavi-lus = cautus, aviceps — auceps, avicella = ancella (uccello, augello): e Cicerone ci assicura che cave ne eas si pronunziava cauneas; con che il cario venditor di fichi a Brindisi avvertiva, senza saperlo, il gran Crasso, che non andasse all'infelice guerra contro i Parti, dalla quale non doveva più tornare.
   § 8. — Dell'accento e del metro latino.
   Gli antichi, e tra essi i Latini, distinguevano nella pronunzia delle sillabe, e quindi delle parole, due cose, ciò sono: la durata e l'intonazione della voce. Per la prima s'intendeva la quantità di voce proferita, o, clic vale lo stesso, il tempo speso nel proferirla; per la seconda, il grado di elevazione o di abbassamento della voce, in una parola il canto che ne accompagnava la pronunzia. Perciò essa era detta dai Latini accentus (adcantus) e npcoMo'ia dai Greci. Dall'accordo di questi due elementi risultava 1' armonica pronunzia della parola nelle lingue antiche, giacché mentre coli' accento tu raccoglievi le diverse sillabe nell' unità dei vocabolo, colla quantità esprimevi tutta quanta la voce d'ogni sillaba e dell'intera parola. L'unità di misura per la durata delle sillabe dicevasi mora o tempo, ed equivaleva sempre aduna sillaba bre\ e, così che una lunga era poi eguale, o press'a poco, a due brevi.
   Nella storia della quantità e dell' accento si contiene gran parte della fortuna de' suoni e de' vocaboli delle antiche favelle, e la ragione dei più notevoli fenomeni, che occorrono appunto nelle loro mutazioni traverso i tempi. Neil' accento poi sta in particoiar modo come l'anima della voce, così, son per dire, il segno caratteristico della lingua e del popolo che l'ha parlata.
   a) Dell'accento.
   Igrammatici latini, traducendo dai greci, così definivano l'accento: (2) Accentus est a.cutae vel gravis vel inftexae orationis elatio, vocisve intentio vel inclinatio, acuto vel inftecco sono regens verba: e seguitavano: accentus dictus ab accanendo, quodsit quasi quidam cujusque syllabae cantus Apud graecos ideo Tìocacùdla dici-
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   (1) Che I v latino fosse in principio di parola più forte del digamma greco si raccoglie da quelle voc d'uguale radice e significazione, dove questo è caduto e quello invece si è conservato. Basii confrontare vomo ed èyJa>, vinum ed olvo;, x'espera ed fS&pa-X ver ed -Ho. Però V iniziale, quantunque avesse un suono forte, cadde sempre in latino quand'era seguito da consonante: come si vede paragonando (ìpsyjo, 8o    (2) La definizione è dì Diomede, p. 423, ma vedi anche Prisc de accent, 4285.
   Tamagni Leller^tura Romana 5